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ricerca e pMI

Dotti economisti spiegano a noi, poveri ignoranti, che il Paese è fragile, peggio è a rischio, perché il suo sistema produttivo è basato sulle piccole imprese e queste piccole imprese sono alla retroguardia della innovazione.
Se ne deduce che siamo senza speranza, visto che non si possono sopprimere, almeno in tempi brevi, cinque milioni e mezzo di imprese.
Ma nella comunità scientifica si dice che non è importante dare la risposta giusta (le piccole imprese innovano poco), importante è fare la domanda giusta.
Qual è nel nostro caso la domanda giusta?
Perché le piccole imprese innovano poco?
Questa ci sembra la domanda giusta.
Considerato che le piccole imprese rappresentano il 50% degli occupati, cerchiamo di collegare il tema dell’innovazione a quello dell’occupazione.
In Italia il tasso di disoccupazione oscilla attorno all’8% (Istat Agosto 2011), rispetto alla media UE pari al 9,5% (Eurostat), peraltro il dato italiano risente in positivo dell’ampio ricorso alla cassa integrazione, atteso che il cassa integrato non è conteggiato tra i disoccupati.
Per meglio focalizzare la questione occupazionale rimarchiamo i seguenti fatti: nel corso degli ultimi decenni i lavoratori italiani si sono gradualmente ritirati dai lavori nell’edilizia, in agricoltura, nella sanità, per citare soltanto qualche comparto. Del resto è ben noto che senza gli immigrati le nostre imprese del Nord-Est soffrirebbero di una crisi occupazionale al contrario, cioè per carenza di offerta.  
In pari tempo è cresciuta l’economia del “sommerso”, con la conseguenza che i dati occupazionali sono in realtà incerti.
Infine, sempre in questi ultimi decenni, se il numero dei giovani laureati è tendenzialmente stabile, la criticità sta nel fatto che i laureati in discipline come psicologia, sociologia, scienze della comunicazione et similia sono oramai centinaia di migliaia (a titolo d’esempio ricordiamo che i soli iscritti all’ordine degli psicologi sono più di 70.000), e questa massa di laureati è difficilmente occupabile.
In ogni caso se è evidente che si pone un problema di recupero formativo di parte dei laureati, resta l’evidenza che il giovane italiano ha delle aspettative di lavoro alte, che certo non sono compatibili con il lavoro manuale.   
Sono le nostre imprese in grado di soddisfare queste attese?
Oggi solo in parte, perché i posti di lavoro che richiedono buone conoscenze di base per acquisire buone competenze sono pochi rispetto all’offerta e per di più, tagliando della grossa, spesso domanda e offerta non sono in sintonia.
Nei precedenti articoli abbiamo espresso l’opinione che la finanziarizzazione delle grandi imprese ha marginalizzato le attività di ricerca e sviluppo, con la conseguenza di impoverire la qualità del lavoro. Credere che in un arco di tempo breve, 5 – 10 anni, le grandi imprese italiane cambieranno orientamento, riteniamo che sia un’illusione.
Arriviamo dunque ai 5,5 milioni di piccole imprese.
Se fossimo in grado, in tempi rapidi, di favorirne l’innovazione, in tutti i termini: organizzativa, associativa, di prodotto, di servizio, ecc. allora sì che per i giovani ci sarebbe un radicale miglioramento quali-quantitativo nelle prospettive occupazionali, fatto salvo quel recupero formativo al quale abbiamo accennato.
Partiamo dall’assunto che le piccole imprese hanno tempi di risposta  rapidi e che
a fronte di concreti vantaggi imprenditoriali la loro risposta sarebbe altrettanto rapidamente positiva.
Prima di entrare nel merito delle nostre proposte anticipiamo la domanda: si può avviare un processo di questa natura a costo zero per il nostro indebitato stato?
No-ma.
No perché, come vedremo, le nostre proposte si basano in larga misura sull’impiego di risorse umane e strumentali esistenti e questo rappresenta comunque un costo, ma il ricorso alle agevolazioni in conto capitale, cioè a fondo perduto, potrebbe essere molto limitato e comunque gestito secondo criteri erogativi graduati sul raggiungimento degli obiettivi.
Come sapete le nostre proposte ruotano attorno al rapporto tra le piccole imprese e le istituzioni che svolgono ricerca.
Questo rapporto è concepito perché si sviluppi la relazione fruttuosa tra le esigenze di innovazione delle piccole imprese e le attività di ricerca.
Inoltre per questa via potranno essere migliorate le attività di orientamento delle università, che saranno in grado di svolgere il proprio compito sulla base della qualificazione e quantificazione della domanda occupazionale.
Immaginare che un gran numero di piccole imprese venga coinvolto nelle attività di ricerca è ovviamente insensato, ma possiamo suddividerle in due fasce, nella prima troviamo quelle reti di piccole imprese che sono coinvolte nello sviluppo di progetti di ricerca e innovazione, mentre nella seconda fascia ricade il gran numero di piccole imprese che dalla applicazione di quei progetti può trarre vantaggio. Pensiamo soprattutto alle innovazioni relative ai processi organizzativi, alla logistica, al marketing, alla comunicazione, alla internazionalizzazione.  

novembre 2011

g. patruno

 

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