APRIRE GLI OCCHI IN UN MONDO NUOVO
Mi è piaciuto il film più costoso della storia, quello destinato a rappresentare il punto di svolta nella storia del cinema, a farci vedere quello che non avevamo mai visto prima, a dirci quello che non avevamo mai sentito prima?
La risposta è no.
È che io sono allergica al new age, al malefico minestrone di ritagli di filosofie raccattate alla rinfusa qua e là e appiccicate insieme nonostante, e non serve una laurea in filosofia a capirlo, siano prelevate di peso da sistemi di pensiero dissonanti, che magari si sono combattuti sanguinosamente per epoche, tipo frammenti di comunismi ideali con spolveratine di cattolicesimo, brani di filosofie orientali e teorie sulla natura che non si applicano neanche a una collezione di peluche. Insomma, come tutti i soggetti allergici, reagisco anche a minime tracce di new age, e qui ce ne sono dosi da atterrare un intero ospedale.
Un pianeta in cui, come al solito, un immenso cervello collettivo comunica attraverso le radici degli alberi (anche se non resiste, come non ha mai resistito nessun vegetale, pensante o meno, a una bella spruzzata di napalm). L’eterna, profonda saggezza dei selvaggi (che non è riuscita a salvarne neanche uno, mai, non c’è mai stato neanche un solo selvaggio, che si sia riuscito a salvare dal contatto con l’occidente, che faccia piacere o meno). Una natura lussureggiante, che produce luci al neon colorate fino a sembrare un casinò di Las Vegas, mentre i riti degli abitanti sembrano una sessione di ballo di gruppo sulla costiera romagnola.
Insomma, quando è troppo è troppo: nonostante l’innegabile bellezza degli effetti speciali e del 3D sono uscita dal cinema sommamente irritata.
Poi, mentre tornavo a casa, mi è venuto un sospetto. Che il protagonista paralizzato nelle gambe, che può ancora combattere la sua guerra in un corpo ricostruito per lui dalla tecnologia. Che queste figure androgine, senza seno, senza fianchi, senza peli. Che questo luogo dove il buon selvaggio è buono davvero, e può ancora vincere. Che tutto questo film contenga una metafora del mondo virtuale in cui sempre più persone trascorrono il proprio tempo, per sentirsi più belle, più forti e più buone di quello che sono nella realtà. Second Life, Facebook, World of Warcraft: luoghi dove la vita non è quello che è, ma quello che dovrebbe essere. Luoghi pacchiani, sovrabbondanti di luci e colori, come il mondo di Avatar, in cui c’è sempre un lieto fine. Allora mi è venuto il sospetto che la scena finale, in cui il protagonista chiude gli occhi sulla sua vita umana, per riaprirli trasformato per sempre in Avatar, sia la metafora di quello che attende tutti noi, adesso, tra poco.
Marta Baiocchi
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