“Io e Bassotuba abbiamo perso del tempo. Abbiamo perso un sacco di notti a parlare, che potevamo impiegarle un po’ meglio. Non solo io, che potevo passarlo a scrivere, tutto quel tempo, e diventare finalmente uno scrittore come si deve. Anche lei.
Lei, non so, poteva studiare. Avrebbe potuto leggersi l'enciclopedia. Che tu potresti pensare Per forza che è andata via, la prendi in giro. Invece no. È stata lei che mi ha detto che le piace leggere le enciclopedie. Però, a pensarci, mai una volta che l'ho vista leggere l'enciclopedia. Credo anch'io, passavamo tutte le notti a parlare.”
Il linguaggio è il punto di forza di questo libro. La ricerca di un linguaggio parlato e vivo è un punto chiave per molti autori di questi anni, ma da questo punto di vista Paolo Nori sembra uno dei più interessanti e capaci.
Traduttore dal russo (“Io, pare, sono un esperto di letteratura russa. Laureato in lingue e letterature straniere, specialista in lingua e letteratura russa. E allora mi chiedono Ma come mai hai studiato russo, ti piacerà tantissimo la letteratura. Io, la letteratura russa, non so niente.
Chissà quanti romanzi ti sei letto, mi dicono, laurearti in letteratura russa. Io ho letto tre volte I fratelli Karamazov. Non ci ho capito un cazzo.”), la sua scrittura ha quell’effetto di sciatta naturalezza che solo una grande consapevolezza della lingua può costruire.
Ecco, l’aspetto più interessante di questo libro è il fatto che sotto le mentite spoglie di un gergo trasandato suggerisce una grande competenza letteraria, senza peraltro mai cadere nello snobismo o nel narcisismo.
La storia, una storia vera e propria, non c’è: si tratta piuttosto delle riflessioni di un traduttore trentacinquenne, che scrive romanzi cercando di crearsi un posto nel mondo della letteratura. Cosa che, come sappiamo, un giorno riuscirà a fare. Non in questa storia, però. Per ora, lui non ha il becco di un quattrino, la donna che amava lo ha lasciato e la sua famiglia sta attraversando un momento molto difficile.
Una storia che di per sé sarebbe di una banalità sconfortante: il tema del trenta-quarantenne precario, che vaga senza trovare il suo posto in una società che non ha nulla da dare ai giovani, è ormai logorato dall’uso: ogni anno escono decine se non centinaia di romanzi che raccontano questo mondo, questi personaggi, queste situazioni, in modi sconfortantemente simili.
Invece, questo libro non da quella sensazione di già sentito che danno la maggior parte degli altri. È proprio la padronanza del linguaggio, io credo, a riscattare il libro.
E non solo, viene da pensare, perché il libro è scritto in modo interessante. Ma forse perché il personaggio stesso, che poi è l’autore, non è affatto allo sbando come vuole sembrare, non è affatto alla mercè del mondo come tanti altri autori giovani.
è forse la consapevolezza non detta di possedere una capacità professionale propria, una conoscenza della lingua (quella Russa, ma anche la sua) non comune, che rende questo personaggio, che vuole a tutti i costi dipingersi come uno sbandato, molto più determinato e capace di incidere sul mondo di quello che di solito i nostri tempi concedano ai giovani. E di quello che i giovani concedano a sé stessi. |
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