LE RADICI DELLA PITTURA OCCIDENTALE
Al Vittoriano, dopo numerose proposte di un’arte concepita tra la metà del XIX secolo e la metà del successivo, è di scena la pittura del ‘300, ruotando intorno alle suggestioni di Giotto. Al di là dell’aspetto oleografico delle matite colorate, Giotto non innovò solo la pittura, abbandonando i canoni bizantini, ma anche la concezione visiva di arti ambiti artistici. Dante gli rese omaggi, nel Purgatorio, come il maggior pittore del suo tempo. Le notizie su di lui sono scarse, sembra sia nato nel Mugello intorno al 1266, morto in Firenze nel 1336 e sepolto in Santa Croce; venne chiamato di Bondone, forse dal nome del padre, e nulla si sa del suo apprendistato e della sua formazione, a fine ‘200 sono databili alcune tavole a lui attribuite e poi da fonti antiche viene citato come operante nella Basilica di San Francesco ad Assisi dove però per molti anni lavorarono tanti artisti di diverse scuole. Nella sua arte appaiono influssi di Cimabue e del Cavallini nonché all’inizio anche ricordi bizantineggianti ma seppe rielaborali creando uno stile personale con un nuovo modo di concezione dello spazio, della disposizione delle figure, della loro monumentalità e del rapporto con il paesaggio. Secondo fonti e tradizione viaggiò molto lasciando testimonianze certe del suo passaggio a Padova, Roma, Rimini, Napoli e Milano. Oltre agli affreschi di Assisi dipinse la Cappella degli Scrovegni a Padova, recentemente restaurata, le Cappelle Bardi e Peruzzi di Santa Croce a Firenze, a Roma operò in San Giovanni in Laterano e nella vecchia San Pietro, purtroppo restano solo un frammento sull’indizione del Giubileo del ‘300 a San Giovanni e una parte di mosaico, pesantemente restaurato, nell’atrio di San Pietro; di lui restano anche dipinti su tavola come lo straordinario Crocefisso nel Tempio Malatestiano di Rimini, quello di Santa Maria Novella a Firenze, il Polittico di Bologna ed il grandioso Polittico Stefaneschi dipinto su tutte e due le facciate, ora nella Pinacoteca Vaticana ma a suo tempo sull’altare maggiore dell’antica basilica di San Pietro; pale, crocefissi, piccoli trittici di devozione privata uscirono in gran copia dalla bottega di Giotto. L’artista nel 1334 fu eletto capomastro dell’Opera del Duomo di Firenze e si occupò anche di architettura iniziando la costruzione del Campanile. Fu capostipite di generazioni di pittori che si sparsero per tutta Italia ed iniziarono a dipingere in maniera diversa dalla pittura precedente che era statica, ieratica, solenne e che con Giotto divenne viva, naturale, corposa.
Ora, per ricomporre quell’epoca di rinascente arte sono in mostra oltre 150 opere e di esse almeno venti sono sicuramente o con buona probabilità di sua mano, polittici, resti o parti di opere più grandi, singole tavole; fanno contorno più di ottanta dipinti di altri autori alcuni celebri, altri appena noti o addirittura ignoti che seguirono la lezione giottesca per oltre un secolo.
La tridimensionalità dello spazio, il naturalismo dell’immagine e del paesaggio, la drammaticità della rappresentazione divennero canoni sui quali si poggiò la pittura sino all’alba del Rinascimento. Sono presenti opere di Cimabue, Cavallini, Torriti, Taddeo Gaddi, Andrea Orcagna, Maso del Banco, Nardo di Cione, Paolo Veneziano, Guariento, Giusto de’ Menabuoi, di vari pittori della scuola riminese, Giuliano, Giovanni e Pietro da Rimini e Giovanni Baronzio, Simone de’ Crocefissi, di tanti altri meno celebri e di vari “Maestri” senza nome.
Numerose tavole sono state restaurate in occasione della mostra. Nella sua lunga vita Giotto non solo influì sulla pittura ma condizionò anche altre forme d’arte determinando cambiamenti di stile anche nel modo di scolpire, di miniare, di trattare metalli preziosi.
In mostra sono presenti una quindicina di sculture dovute a grandi maestri, Arnolfo di Cambio, Giovanni Pisano, Tino da Camaino, Maso del Banco, Andrea Pisano, oltre venti manoscritti finemente miniati ed infine una decina di manufatti di alta oreficeria come oggetti sacri, croci, reliquiari, sigilli. In tutto quanto esposto si nota l’influsso, più o meno marcato, della grande rivoluzione naturalistica giottesca e della plasticità corposa dovuta anche allo studio di Giotto della classicità che egli conobbe nei suoi soggiorni a Roma dove si recò almeno due volte lavorando per Pontefici ed esponenti della Curia. Visibili con il percorso “l’altro Giotto” le molte opere giottesche che o per essere affreschi o per la loro fragilità non è stato possibile esporre.
Roberto Filippi
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