Oltre l'Occidente
CINAFRICA E LA TERRA
Un idillio che potrebbe finire
Il 2009, con una visita del premier cinese Hu Jintao in Africa, si è consolidare l'interscambio che negli ultimi 10 anni si è decuplicato tra la Cina e il Senegal, Tanzania, Mali e Mauritius, senza dimenticare lo Zambia, lo Zimbabwe, l’Uganda. il Sudan e l´Angola.
Un interscambio basato prevalentemente tra armi in sostituzione di materie prime, superando ogni embargo verso governi più simili a quello cinese che a quelli europei, dove una democrazia parlamentare è fondata su delle elezioni “guidate” e la libertà d’opinione è basata sulla diffamazione di chi si oppone alla corruzione istituzionale.
Un commercio, quello bellico, che non conosce crisi se è vero che la Cina ha notevolmente aumentato l’esportazione verso il Sudan, per ripristinare l’ordine nel Darfur, il Niger, per rendere inoffensivi i turbolenti Tuareg, lo Zimbabwe del “democratico” Mugabe e l’irrequieto Ciad.
Anche l’industria bellica italiana si difende – anzi attacca – come dimostra l’incremento di quasi il 29% rispetto al 2007, occupando il quarto posto come produttore e il secondo come esportatore mondiale di armi leggere.
L’Africa che si colora di giallo, vede l’impegno cinese per la concessione di prestiti milionari e la realizzazione di opere infrastrutturali.
Un impegno cinese in Africa che si palesa anche con il sostegno politico al regime di Omar al-Bashir, davanti alle accuse di genocidio in Darfur presentate dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia e dall’Onu, una difesa d’ufficio che ha elargito anche all’asiatica giunta militare del Myamar-Birmania.
Il colosso asiatico, difendendo i vari regimi totalitari, difende se stesso, sia politicamente che economicamente, sbarrando il passo ad ogni ingerenza umanitaria in nome della «non interferenza negli affari interni» degli Stati sovrani. In cambio la Cina mobilita un ampio fronte di solidarietà tra i Paesi emergenti ogni volta che i suoi abusi contro i diritti umani finiscono sotto accusa, per esempio nell’ambito della cinesizzazione del Tibet, fomentando un coro filo-cinese degli alleati africani, asiatici e anche latinoamericani.
La Cina è coinvolta, nei diversi paesi africani, non solo nell’industria estrattiva, ma anche in accordi di “cooperazione” agricola con lo Zambia, lo Zimbabwe, l’Uganda e la Tanzania, trasformando il Continente Nero, con l’insediato stimato entro il 2010 di un milione di agricoltori cinesi dislocati in 14 aziende. in una propria provincia.
Tecnici, imprenditori, operai e agricoltori cinesi, con una vita separata dai nativi che ha portato alla realizzazione di veri e propri villaggi militarizzati, come i migliaia di cinesi in Zambia. Esiste, nonostante la separazione, il fenomeno dei figli misti. Padri cinesi che non riconoscono i figli è un ulteriore motivo, a quello dello sfruttamento, che fomenta l’ostilità verso la presenza asiatica.
È più facile prendere le terre fertili degli altri, piuttosto che investire sul risanamento ideologico del proprio paese o forse è l’istituzione di tanti campi di lavoro per dissidenti fuori dai confini cinesi?
Una vera e propria presa di possesso di terre operato anche da altre nazioni (Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti, Giappone, Arabia Saudita), per un acquisto globale di 7,6 milioni di ettari.
Terre generose tolte alle popolazioni, già fortemente provate dalle condizioni di vita, limitandone il seminomadismo o la transumanza come quella dei Masai.
Dopo la colonizzazione per conquista bellica e quella commerciale è ora la volta dell’acquisto di suolo patrio, da governanti poco virtuosi, per il multisfruttamento terriero, dai minerali al grano, senza dimenticare l’uso da pattumiera del suolo e delle acque.
Anche la narrativa è attenta alle implicazioni tra politica e criminalità internazionale, nel traffico di diamanti e armi, con lo smaltimenti illegali di rifiuti. Una di queste prove di “giallo investigativo” lo troviamo nel libro “L’albero dei microchip” di Francesco Abate e Massimo Carlotto (Ed. Ambiente).
Pechino che foraggia il Continente Nero è il tema di recenti pubblicazioni che mettono sotto accusa o assolvono tale operato corruttivo, ma anche la possibilità che la Cina potrebbe essere unica salvezza per l’Africa.
Nel saggio di Dambisa Moyò – DeadAid – si approfondisce la tesi che negli anni cinquanta Peter Bauer, economista ungherese trapiantato in Inghilterra, definiva perversi gli effetti degli aiuti, perché il denaro finisce sempre nelle mani di pochi, interferivano con lo sviluppo. Il sottotitolo della pubblicazione della Moyò - perché gli aiuti non stanno funzionando e c’è una via migliore per l‘Africa – è categorica nella prima parte e interrogativa nella seconda, ma che non contempla, tra le varie possibilità, una via democratica che «può danneggiare lo sviluppo dal momento che i regimi democratici faticano a produrre legislazione benefica sul piano economico». Esportare democrazia, secondo Moyò, può far vivere in un eterno sottosviluppo.
Forse il Sudafrica è eccezione che conferma la regola.
La democrazia come freno allo sviluppo è anche la tesi che Paul Collier cerca di far digerire nel recente libro “Wars, guns and votes. Democracy in dangerous placet” e precedentemente dibattuto, nel giugno dello scorso anno, nell’ambito del “Festival Economia” di Trento, introdotto dal giornalista Pietro Veronese, dal titolo “Guerre, sviluppo, democrazia: quale futuro per l’Africa”.
È probabile che la Cina abbia aiutato alcune economie africane a svilupparsi, come è successo negli anni settanta con la realizzazione di una ferrovia in Zambia, ma non ha regalato nulla. Dimostrando la superiorità del comunismo rispetto al capitalismo nell’approfittare delle debolezze e della dissolutezza di molti governi.
Più articolato è il reportage di Serge Michel e Michel Beuret (CINAFRICA. Pechino alla conquista del continente nero), corredato dalle fotografie di Paolo Woods, nel documentare sul campo la presenza e l’attività cinese in Africa, viaggiando lungo le ferrovie dell’Angola, attraverso le foreste del Congo e nella Nigeria dei karaoke. Hanno percorso quindici paesi sulle tracce dei cinesi arrivati in Africa e di un nuovo mondo abitato da imprenditori pionieri e lavoratori sfruttati, da progresso e contraddizioni. Dalle campagne impoverite nel cuore della Cina alle poltrone in cuoio dei ministri africani, gli autori ci raccontano l’avventura dei cinesi partiti per costruire, produrre e investire in una terra che per l’Occidente è ormai condannata a ricevere solo aiuti umanitari.
Mentre l’idillio tra la Cina e i diversi governi africani potrebbe essere ad una svolta, in Africa vi sono laici e religiosi impegnati a creare un’autonomia economica nelle povere comunità, valorizzando le culture autoctone, in barba agli approfonditi studi delle varie organizzazioni mediali sullo sviluppo e sull’alimentazione.
Altre persone di buone intenzioni intendono arginare lo spopolamento delle campagne, in favore dell’urbanizzazione. Una migrazione favorita non solo dalle precarie condizioni di vita per i numerosi conflitti regionali, oltre che dall’incremento della cessione a varie multinazionali e governi delle terre migliori in affitto.
Un inurbamento che ha prodotto la dispersione dei gruppi familiari e sociali, la perdita d’identità, disoccupazione e impoverimento. Un’emergenza umanitarie alla quale cerca di rimediare fratel Fazio, missionario in Madagascar, organizzando un contro esodo in aree rurali, messe a disposizione dal Governo. Un progetto sostenuto dal MAGIS (Movimento ed Azione dei Gesuiti Italiani per lo Sviluppo) denominato “Esodo urbano” e che trovava in artisti come Bruno Aller degli efficaci sostenitori.
Ma ci sono anche delle nazioni che, come la Russia di Medvedev, vuol promuove l’agricoltura di casa. Un impegno che il presidente russo ha annunciato a San Pietroburgo a conclusione del tredicesimo Forum economico internazionale.
Un inno alla Terra che coinvolge non solo i politici e gli economisti, ma anche gli uomini di buona volontà come Carlo Petrini e Ermanno Olmi o il regista francese Yann Arthus-Bertrand con il suo “Home”.
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