Mediterranea

Itinerari
PIGNETO
A spasso con Pasolini

Prendete un quartiere nel quadrante più congestionato di Roma e circondatelo con una sopraelevata mostruosa da una parte e una ferrovia dall'altra, poi fate un frullato di edilizia popolare e speculazione, immigrazione e voyeurismo bobò, aggiungete un pizzico di Neorealismo e di poetica pasoliniana e vi si svelerà una delle realtà più interessanti ed originali della città.
Ammetto di conoscere il Pigneto da poco, cioè da quando si è trasformato in un ricettacolo notturno per giovanotti "alternativi" attirati come mosche dall'atmosfera bohemien dei suoi caffè letterari e delle sue osterie dal sapore antico, e posso solo immaginarmi come potesse essere prima, quando di questo quartiere un po' chic e un po' straccione tra la Casilina e la Prenestina ne sentivo solo parlare, senza riuscire a capire cosa potesse avere di così attraente.
Visti di giorno dalla tangenziale, avvolti dal traffico e dallo smog, i brutti palazzi che ne delimitano i confini sembrano i frangiflutti di un mare di macchine. Siamo al di fuori delle mura Aureliane, lontani dalle vetrine tirate a lucido del centro storico, dalle carrozze per turisti e dai finti centurioni, dove casermoni di cemento armato spuntano dal terreno come funghi e pesano sul paesaggio di una città che di eterno e di imperiale pare avere poco o niente. Il Pigneto si trova all'interno, nascosto e protetto da questa barriera grigia e squallida.
Svolto a sinistra dalla Casilina sulla prima strada che mi permetta di uscire dal traffico. Via Grosseto con le sue case basse color pastello e le biciclette parcheggiate fuori dalle porte pare un silenzioso sentiero urbano, mentre la percorro il ronzare delle macchine si affievolisce gradualmente alle mie spalle fino a scomparire del tutto, sostituito dal vociare umano del marciapiede e dei negozi.
L'inizio di via del Pigneto è un'ampia isola pedonale pullulante di call center, kebab, caffè letterari, negozi di pasta fresca e di chincaglieria cinese. È occupata per metà dalle bancarelle del mercato, dove i residenti storici e gli anziani fruttivendoli vivono e lavorano insieme ai nuovi arrivati, ai cinesi dall'aria annoiata con i loro banchetti colmi di cavalletti fotografici ed alimentatori per cellulari, ai magrebini sorridenti nascosti dietro montagne di dvd e libri usati, ai bengalesi caciaroni caciaroni che contrattano tessuti e vestiti. Mi ha sempre incuriosito questa corrispondenza tra merce ed etnia: perché i venditori ambulanti di calzini e mutande sono tutti nigeriani mentre gli indiani hanno il monopolio degli accendini kitch e di quelle rane di legno che fanno il verso quando gli passi una bacchetta sulla schiena? Poi mi rendo conto che al mercato del Pigneto questo tipo di distinzioni sono abbastanza fuori luogo, soprattutto quando il bengalese del banco dei tessuti parla con un accento che pare er Monnezza.
Inizio a passeggiare con la mente ancora ai calzini e agli accendini kitch, seguendo voci e colori senza un itinerario preciso. Incontro quattro ragazzi africani a via Ascoli Piceno appoggiati alla ringhiera stradale di fronte ad un parrucchiere dal nome complicato, uno di loro sembra un rapper del Bronx, gli altri indossano lunghe tuniche bianche e sgranano rosari, sono appena usciti dalla moschea che si trova in fondo alla via, in un vecchio garage vicino alla Prenestina. Prima era un ristorante etiope, mi dicono.
Svolto a destra per via Macerata, una strada fatta di palazzi popolari un po' decadenti ma belli che è un susseguirsi di negozi equosolidali, cineteche e smart shop per fumatori di un certo tipo. Qua c'era anche un famoso cinema d'essai che organizzava rassegne famose in tutta Roma, poi è diventato a luci rosse. Dalla saracinesca abbassata e dal cartello di affittasi si capisce che ora non è più né l'uno né l'altro.
C'è un glicine dagli enormi fiori viola arrampicato ad una casa gialla con le fronde che ne incorniciano le finestre. Una signora si affaccia agitando un mazzo di chiavi e due gatti sbucano da sotto una macchina infilandosi nella porta aperta. Siamo a via Caltanissetta, ma non sembra più Roma. Solo mezz'ora prima ero incastrato tra le macchine, alienato dal frastuono dei motori e dai fischietti dei vigili impazziti nel traffico, ora potrei essere a mille chilometri di distanza, nell'omonima strada di qualche lontano paesello di provincia. Un cane sdraiato al sole inizia ad abbaiarmi ma neanche si alza da terra, rimane a guardarmi con gli occhi sonnacchiosi mentre mi allontano dall'isola pedonale, anche lui fa il suo lavoro, ma con lentezza.
Supero il ponte della ferrovia e mi ritrovo nuovamente su via del Pigneto, chiusa al traffico per i lavori della metropolitana. Conto cinque pini secolari che sbucano alti oltre le transenne, ultimi superstiti di quel grande bosco costellato di ville e casali da cui l'intera area ha preso il nome e che da Porta Maggiore si estendeva a perdita d'occhio nell'agro romano.
Qua le strade hanno nomi interessanti: via Braccio da Montone, via Castruccio Castracane, via Brancaleone, via Fanfulla da Lodi. Graziose casette a due piani e palazzi sghembi si susseguono disordinatamente in un miscuglio strampalato da cui sbucano cortili, giardini e orticelli, quel che rimane di quella periferia misera e brutale che Pasolini definiva "la corona di spine che cinge la città di Dio", dove vagabondavano i suoi Ragazzi di vita nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Avevo letto che il bar e la casa di Accattone c'erano ancora, da qualche parte a via Fanfulla da Lodi, ma anche se cerco di camminare sulle tracce di quei fotogrammi nella speranza di individuare tra quei muretti screpolati uno scorcio familiare non mi pare di riconoscere nulla. Anche il Pigneto ha cambiato volto, là dove c'erano i campi e le baracche degli sfasciacarrozze sorgono i palazzi sghembi di cui ho parlato prima, che i palazzinari hanno tirato sù negli anni '60 per accogliere l'immigrazione dal sud. Sembrano ancora più brutti e stonati vicino ai villini della città-giardino che inizia poco più avanti, e che da via Fanfulla da Lodi arriva fino a piazza dei Condottieri , un gioiello dell'edilizia popolare anni '20, quando a costruire erano cooperative di lavoratori che sognavano città fatte di casette bifamiliari a due piani, piccole e rosse. Il contrasto mi fa pensare alle Città Invisibili di Calvino.
Mi chiedo perchè tutta la città non possa essere così, sviluppata in orizzontale piuttosto che in verticale, leggera e colorata, dove chiunque può ritagliarsi uno spazio più umano. Mentre mi allontano verso il rumore della Prenestina ripenso al cane che mi abbaiava sdraiato a terra, ad Accattone e al bengalese che parla romanaccio, al glicine dai fiori enormi ed alla moschea nel garage. Il Pigneto è così in fondo, una Città invisibile nella città tangibile.

David Chierchini


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