La cappellaia matta

Poche personaggi hanno saputo fare di se stessi un'icona come Gabrielle Bonheur Chanel, in arte Cocò. Secondogenita di un venditore ambulante e una sarta, cresciuta in un orfanotrofio prima e affidata poi al collegio Notre-Dame, a Moulins, dove impara in effetti a cucire, mademoiselle Cocò è nell'immaginario collettivo un emblema di sobrietà ed eleganza.

La regista lussemburghese Anne Fontaine, le dedica una biografia sospesa fra il melodramma e l'accuretezza del documentario storico. Così alla storia di una sartina che si guadagna da vivere in un negozio di stoffe di giorno e cantando - male - in fumosi cabaret di notte, si lega la contaminazione fra i residui annoiati di una nobiltà in declino e la borghesia dinamica e incalzante nella Francia dei primi del Novecento. E' nel 'campo neutrale' dell'avanspettacolo che si incontrano i due mondi, l'uno in cerca di svago e l'altro di affermazione, e così Gabrielle poco più che adolescente e ballerina - non - per vocazione conosce il barone Étienne Balsan, amante della volgarità e dei cavalli che la ribatezza Cocò e con il quale inizia una relazione. Il bel mondo abulico e agonizzante di Belsan, diviene presto un riserva di caccia per l'intraprendenza di Cocò che intuisce la possibilità di farsi imprenditrice da sè e trasformare in un lavoro vero e proprio un talento e l'innato buon gusto. In questo senso mademoiselle Cocò è il prodromo di un femminismo proattivo che si oppone ad un destino presegnato con le armi della creatività. Audrey Tautou, nel ruolo della giovane Chanel, riesce finalmente a scollarsi di dosso il personaggio di Amelie, che le ha dato la fama, ma è in pratica divenuto l'avatar dell'attrice. Magra e nervosa, trae il suo fascino, anzi il suo essere 'charmant', dal piglio asciutto e vagamente androgino che imprime al suo personaggio e nel finale della pellicola regala forse la sua migliore prova da interprete.

Claudia Patruno