COMMON PLACE
Dopo quattro anni trascorsi fra gli Stati Uniti e Tel Aviv, Gilad Efrat torna a Oredaria con una mostra personale, Common Place, in cui, come in passato si adopera per far rivivere luoghi e non-luoghi astraendoli dalla memoria individuale e collettiva.
La mostra si compone di tre unità complementari. A legarle assieme è un doppio discorso, politico e pittorico, che l’artista innesca già dal corridoio principale dove, lo sguardo intrusivo di tre scimmiette disorienta, destabilizza e in un certo senso prepara ad un’esperienza a cui è bene non esser troppo predisposti.
Una serie di paesaggi lunari senza tempo e senza storia, in cui è impossibile riconoscere un tessuto condiviso, costringono ad una sensazione di perturbante assenza.
Tale sentimento di scoramento viene poi confermato ed enfatizzato nell’ultima sala, dove l’asettica prigione di Ansaar altro non è che il luogo mentale in cui ognuno di noi può individuare la propria solitudine.
Il fare dell’artista è simile a quello di un archeologo. Realizza i suoi lavori stendendo strati leggeri di colore scuro e successivamente li rimuove per dar luce ad un fondo quasi luccicante. Per sottrazione ricostruisce situazioni inimmaginabili fino al momento in cui egli stesso le delinea e riassembla in maniera del tutto casuale.
I suoi non sono assolutamente luoghi geografici definiti eppure in essi si riconoscono percorsi e sentieri comuni all’interno di processi identitari a volte anche dolorosi.
Marianna Fazzi
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