Il riccio anti-filosofico
Questo libro uscito quasi in sordina sta scalando rapidamente le classifiche italiane, dopo aver riscosso un ancor più grande, imprevisto successo in Francia.
Un romanzo umoristico, pensoso, tragico, satirico, filosofico? La ragione del suo successo è forse proprio nella difficoltà di definirlo. E’ forse proprio nel modo in cui tutti questi aspetti si mescolano, se non proprio arrivano a fondersi del tutto, in questo libro.
La storia segue le riflessioni parallele di due personaggi femminili: una ragazzina dodicenne di buona famiglia, di un’intelligenza fuori dal normale e dalle tendenze suicide, e una portinaia ultracinquantenne in ciabatte e vestaglia, che cela agli estranei nozioni profonde di arte, letteratura, filosofia. Entrambe inscatolate dentro lo stesso condominio di lusso a Parigi: la ragazzina nell’enorme appartamento di famiglia, la portinaia nella sua angusta gabbiola; nessuno sembrerebbe essere più distante di loro. Eppure, il flusso dei loro pensieri e qualche evento inatteso farà loro capire che le cose stanno altrimenti.
Una delle cose migliori di questo libro è il tratto vivace con cui i personaggi e le situazioni che si affastellano in questo condominio balzano fuori, dipinti con bonaria – ma non sempre – ironia. I pregiudizi, le piccole manchevolezze, le comiche miserie di un gruppo di ricchi. Impossibile non farsi tornare in mente – se è consentito paragonare le cose piccole alle grandi - “La vita, istruzioni per l’uso” di Perec, per quell’immagine del condominio come grande scatola di pezzi umani.
Il linguaggio è quasi sempre veloce, divertente, brioso: nelle voci delle due donne che si intersecano c’è sempre l’eco dell’ironia, anche quando il discorso si muove sui temi più tristi. Lo sguardo demitizzante conquista la simpatia del lettore: impossibile rimanere impassibili davanti al capitolo in cui, in poche righe, viene fatto a pezzi Edmund Husserl, (“Un nome che vedrei bene per un aspirapolvere senza sacchetto”) e tutta la fenomenologia (“Come si svolge la giornata di un fenomenologo? Si alza, è cosciente di insaponare sotto la doccia un corpo la cui esistenza è priva di fondamento, di buttar giù toast annichiliti, di infilarsi abiti che sono come parentesi vuote.”)
Tutto il libro, in effetti, mira a smitizzare le fumose teorie della filosofia, della psicanalisi (“Mi pare che solo la psicanalisi possa competere col cristianesimo nella passione per le sofferenze prolungate”), della critica accademica all’arte, e anche della politica, tanto di destra quanto di sinistra, e ci riesce quasi, nel suo modo garbato e sorridente.
La bellezza della vita, l’eleganza del riccio, va saputa vedere tra le spine, è in qualcosa di più sottile e più tangibile al tempo stesso di tante teorie: è nel mangiare un pasticcino, nell’ascoltare un grande musicista sul proprio grammofono, nell’accorgersi di una camelia gialla, nello scoprire l’essere umano da amare in chi ci era sembrato un estraneo. Il successo di questo libro, probabilmente, è qui: nel garbo con cui ci rassicura sul fatto che in fondo, la vita è sempre, ancora, una cosa meravigliosa.
Un po’ sempre la solita filosofia delle piccole cose, insomma, sentita e risentita cento volte. Muriel Barbery ce la racconta per la centunesima, e il suo linguaggio divertente, la freschezza delle situazioni che dipinge, la simpatia dei suoi personaggi, riescono a convincerci.
Quasi.
Marta Baiocchi
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