II BATTISTINI - Questo piccolo purgatorio
La piccola signora in bianco sale sul vagone affollato con più facilità rispetto agli altri. L’abito aiuta, in questi casi. L’abito crea una zona franca tutt’attorno, manco fosse fatto di fuoco, manco portasse sfiga toccarlo, come, in effetti, da sempre gira voce. La piccola signora in bianco lo sa, ma non le dà fastidio.
È una suora, e una suora non può infastidirsi per una cosa simile.
Per il caldo però sì. Metà del volto è coperta dal velo e dal sottogola, l’altra metà, quella esposta, è imperlata di sudore che scivola a goccioloni sulle lenti spesse degli occhiali.
Il resto del corpo è annientato, quasi sciolto sotto il vestito troppo pesante, troppo chiuso. Nessuna concessione, niente spiragli per far passare un po’ d’aria, che comunque in questo maledetto vagone di questa dannata linea A della metropolitana di Roma nemmeno c’è.
Manca l’aria. E in effetti le due ragazzine, lì in fondo, quelle con le magliette sopra l’ombelico, così alla moda, Dio perdoni, non sembrano stare molto meglio di lei. La carne soda delle loro braccia appese ai sostegni gronda sudore tale e quale al corpo suo, della suora, che però suda in silenzio, al buio della veste. Senza perdere decoro e compostezza. Eppure non ci pensano, quelle due lì.
Sudano ma non ci pensano, nota la suora. Continuano a parlare ridendo, sguaiate, di chissà quale sciocchezza che le tiene impegnate fino alla prossima fermata. I giovani sono così, è cosa nota, ma lei invece così non è mai stata, la suora. Suo padre zappava la terra, sua madre zappava la terra e lei pure, zappava la terra dall’età di otto anni, da quando era stata in grado di tenere in mano un arnese.
Poi era arrivata quella possibilità. Allo zio prete era parso di vedere un ardore speciale nel modo di pregare della bambina, alla domenica in chiesa. Aveva proposto la cosa, e alla madre, devota di Santa Rita, non era parso vero.
Suo padre non aveva detto né sì né no, ci mancherebbe pure discutere la volontà del Signore. Solo, si era limitato a bofonchiare nel suo dialetto aspro, lamentandosi perché avrebbe perso due “braccia”. Ed era finita lì. O meglio, era cominciata. La sua carriera, gli studi, il monastero, i primi “successi”.
Fino a diventare preside, addirittura, preside di una scuola parificata, e poi a Roma, direttrice di un istituto.
Niente però che la salvi da quel caldo, niente che la risparmi da quella sensazione opprimente. Sei fermate in fondo sono un ben modesto purgatorio, pensa per consolarsi, e sorride alla bambina seduta di fronte al lei, che la guarda.
È una bella bambina, pulita, ben vestita, all’apparenza educata (lasciando perdere il fatto che non s’è alzata a cederle il posto, ma del resto neanche la madre seduta accanto a lei…).
Somiglia molto a Sonia, la bambina slava che in questo periodo le dà tanto da pensare. Le somiglia solo nel fisico, però, perché Sonia è sciatta e con un che di provocatorio mentre questa qui è ordinata e compita, si vede subito.
Si vede dalle unghie curate, niente a che spartire con quelle orlate di nero e mangiucchiate di Sonia. Si vede dalla camicetta linda e da come sta seduta, le gambe chiuse, le ginocchia unite, la schiena dritta. Ma di certo a lei queste cose le hanno insegnate bene, fin da piccolissima. Non come Sonia, che chissà chi era sua madre e in che postacci ha vissuto fino a quando la guerra e le bombe e i cecchini e tutta quella brutta roba lì l’hanno condotta fino alle porte dell’Istituto.
Un destino crudele, la suora ne conviene, ma meno di altre ragazzine che un’opportunità come la sua non ce l’hanno avuta. L’opportunità di crescere come si deve, ricevere una vera educazione da signora, magari in una buona famiglia adottiva, magari pure ricca. E invece Sonia no, non la capisce questa fortuna. Ciondola sguaiata tutto il tempo per i corridoi, mentre le sue compagne seguono le lezioni, fino a quando la direttrice, cioè lei, o un’altra sorella non la vedono e la rimandano in classe…
Maria Vergine che caldo. Lepanto Flaminio e Spagna sono già passate, ma ancora ce n’è, Maria benedetta, altre tre fermate di purgatorio. La suora si passa una mano sulla fronte senza ricavarne alcun beneficio: bagnata la fronte, bagnata la mano, e quasi quasi rischiava pure di cadere nella frenata in curva che precede Barberini. Il vuoto nero fuori dai finestrini scorre veloce ondeggiando attorno al treno. Un piccolo incubo fatto di cavi elettrici e cunicoli di raccordo, posti in cui nessuno dei viaggiatori si troverà mai pur passandoci ogni giorno, immagini che fuggono dalle retine dopo esservi rimaste impresse per una frazione di secondo.
Luoghi che vedi e non conosci, oggetti di cui intuisci appena la forma senza sapere a cosa servono e come funzionano. Le facce dei pendolari mostrano occhi inespressivi, persi nei pensieri della giornata. Occhi ipnotizzati dai riflessi dei vetri, dalle luci fredde del vagone, dalle pubblicità sciocche sulle pareti, dai volti degli altri passeggeri. Tutta roba che scorre addosso senza lasciare il segno. Soprattutto le facce. Come quelle delle bambine e dei bambini, gli orfani. La suora ne ha visti passare tanti dall’Istituto; restano anche degli anni, a volte, ma alla fine vanno via “adottati o trasferiti in altri istituti” e lasciano posto ad altre facce. Non è facile ricordarle tutte, a un certo punto si sovrappongono. Anche gli occhi furbi ma indolenti di Sonia, la sua espressione maliziosa e quel modo scomposto, quasi osceno, di sedere a gambe divaricate.
Passerà anche lei, il suo ricordo, i fastidi che dà.
E i volti dei genitori adottivi, poi, quelli passano ancora prima, neanche si fermano, quasi. Sorrisi aperti e pieni di speranza quando li vengono a prendere le prime volte, poi i lineamenti induriti quando tornano a lamentarsi, a chiedere supplementi di informazioni per capire come abbiano fatto a mettersi in casa un bambino difficile, “caratteriale” come si dice oggi. Le espressioni colpevoli e sollevate al tempo stesso, quando li vengono a riportare, ammettendo la loro sconfitta. Ci sono genitori e genitori, beninteso, molti sono care persone, capaci di fornire un’educazione sana ai bambini. Come la coppia che l’altroieri Monsignor Vizzini le ha presentato, raccomandandola a lei personalmente. Due care persone – un’ottima posizione, fra l’altro, lui è pure assessore – ma non riescono ad avere figli.
Sarebbero capaci di educarli per bene, con i valori giusti, questo lei lo ha capito subito, due care, ottime persone, ma finora Dio non ha voluto regalare loro questa gioia. E allora Monsignor Vizzini ha chiesto se per il prossimo affidamento non si potesse per una volta fare a meno di attingere agli elenchi ufficiali.
E se scendessi a Repubblica e poi prendessi il 70? pensa la suora per un attimo, ormai esausta del suo calvario privato, mentre prova quasi vergogna quando le cosce umide di sudore le scivolano l’una contro l’altra (sotto l’abito d’estate porta i gambaletti, non le calze lunghe, e così...). Ma no, coraggio, sopportiamo.
Come Nostro Signore...
Certo, pensa ancora, riprendendo il filo del suo ragionamento, la prossima da dare in affidamento è proprio Sonia, la piccola sfacciata. Sarebbe un bel salto, dalla guerra ai Parioli. Una gran fortuna, quasi difficile, per lei, niente da dire. Tutto quel lusso, all’improvviso, e poi una ribalta così in vista, capirai, un padre assessore... Facile che reagisca male, immatura com’è.
Facile che le faccia più male che bene questa possibilità. Come niente diventa una poco di buono, quella. Non si può dire che non abbia già talento per queste cose.
La bambina educata, insieme alla madre, si alza e si avvicina alle porte. La suora potrebbe sedere al loro posto, chi si azzarderebbe a rubarglielo? Ma ormai, per una fermata, non vale la pena. Anzi, meglio bere fino in fondo dall’amaro calice. Se dev’essere sofferenza, sia fino alla fine. Ciò che sembra un male, talvolta porta beneficio, come il purgatorio. Come la situazione di Sonia, per dire.
Ecco, prosegue la suora, forse sarebbe meglio saltasse il turno, la piccola slava, per stavolta. Tanto più che anche questi genitori adottivi nella lista non ci sono. Si farebbe solo un gran danno. Alla piccola, ovvio, e lei non se lo merita, questo danno, con tutto quello che ha già passato. Come non se lo meritano quelle brave persone dell’assessore e della moglie. Dovessero mai lamentarsi col Monsignore... Anche l’Istituto non si meriterebbe mai questa cattiva pubblicità. Nessuno si merita questo danno, conclude la suora proprio mentre si aprono le porte a Termini. La sua fermata. La decisione è presa con naturalezza, proprio in coincidenza con l’arrivo in stazione. Una vera liberazione, pensa infine, mentre aspetta il suo turno per scendere.
Proprio vero che ci voleva, questa sofferenza, per vederci chiaro.
Questo mio piccolo purgatorio.
di Guglielmo Pispisa
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