MISSIONE
COMPIUTA
“Sembrava una giornata normale,
con la gente per strada. Poi, all’improvviso, hanno
cominciato a spararci addosso.
Ho sentito arrivare i colpi, mi sono abbassato, e subito
ho avvertito il dolore”
(un caporalmaggiore dei bersaglieri il giorno delle elezioni
ad Al Gharraf)
Nassiriya (12 novembre 2003) rimarrà
nella memoria e nell’immaginario collettivo degli
italiani ancora per decenni, al pari di El Alamein. I libri
che ne parlano sono già una quindicina, ed ora si
aggiunge questo, scritto da due giornalisti dell’ANSA
che hanno lavorato sul posto e qui mettono a confronto quanto
hanno visto e sentito con tutti i dati delle fonti ufficiali,
siano esse l’ufficio stampa dell’Esercito o
una sentenza di tribunale. Quello che ne esce è una
cronologia precisa dei fatti e anche un’analisi accurata
non solo di cosa è successo in tre anni e mezzo di
missione Antica Babilonia, ma di come ci siamo mossi sul
terreno dall’inizio alla fine della missione, quando
alla fine abbiamo imbarcato tutto e non abbiamo neanche
rifinanziato a dovere il programma di assistenza civile.
Gli autori non danno giudizi morali, ma si limitano ai fatti.
E qui iniziano le sorprese: sappiamo ora il nome –
Rascid - del primo iracheno ucciso dai nostri soldati durante
una sommossa. Veniamo a sapere che il 5-6 agosto 2004, durante
la c.d. terza battaglia dei ponti abbiamo sparato in poche
ore 42.601 colpi, quanti un reggimento in Italia ne spara
in un anno. Impariamo a conoscere non solo fanti e bersaglieri,
ma anche tutti quegli uomini che, discretamente, prendevano
informazioni, parlamentavano con i capi, elaboravano le
strategie di comunicazione e cercavano di non farsi mettere
sotto dagli Americani, meno raffinati ma più potenti
e prepotenti. La nostra provincia, il Dhi Qar, è
a maggioranza sciita ed è poverissima, quindi relativamente
tranquilla ma bisognosa di intervento, più di costruzione
che di ricostruzione vera e propria. Abbiamo fatto molto,
a cominciare dal controllo delle elezioni e dell’ordine
pubblico, anche se – a sentire gli stessi capi iracheni
intervistati nel libro – non abbiamo legato il lavoro
a nessuna grande opera, ma piuttosto a una miriade di piccoli
interventi, in ogni caso necessari in una zone dove c’era
poco o niente in piedi e dove la disoccupazione era quasi
del 45%. Ma è anche impressionante la quantità
di esplosivi sequestrato, il numero degli agenti iracheni
addestrati dai carabinieri della MSU (12.500) e dei soldati
addestrati dall’Esercito (3500). Non si è trattato
di una missione di pace vera e propria, ma l’intervento
sul campo c’è stato: ricostruire le strutture
di una società civile non è mai facile, specialmente
se l’obiettivo dichiarato è quello di far camminare
tutti con le proprie gambe. Né tutto questo ci evitato
perdite umane, come ben sappiamo, né siamo riusciti
sempre a tenere a bada le teste calde. Qui la ricostruzione
dei fatti del 12 novembre è molto precisa, ma neanche
stavolta l’editore ha pensato di allegare una mappa
della zona. Andate allora su Google, entrate in maps e battete
dunque due nomi: Al-Nasiriyah,Irak e Talil,Irak. Avrete
la città a nord, con visibile anche uno dei ponti
sull’Eufrate (dove dal lato sud erano la base Maestrale
dei carabinieri, ma anche la CPA, sede dei nostri uffici
civili), mentre a Talil, sud-est da Nassiriya, sono ben
visibili le piste dell’aeroporto americano e dove
nei paraggi erano le nostre basi White Horse e Libeccio,
i nostri caposaldi nel deserto. Tutto si è svolto
quindi in una zona compresa tra l’aeroporto e l’abitato,
compreso lo sgombero finale, dove siamo comunque riusciti
a non farci sparare addosso. Ma nel libro sono citate decine
di azioni ostili di cui soltanto ora si ha notizia. Morale?
Poteva andarci peggio. In appendice, due interviste esclusive
con i ministri della Difesa che hanno gestito la missione
Antica Babilonia, Antonio Martino e Arturo Parisi. Sono
entrambe interessanti e, pur nella differenza di vedute,
concordano su alcuni punti: l’Italia ha nonostante
tutto fatto un buon lavoro. Cosa ne resterà in futuro?
Ce lo chiediamo anche noi.
Marco Pasquali
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