Mediterranea

NESSUN COMPROMESSO NEL DOLORE

Il dolore continua a fare audience, come conferma la mostra del Macro - Future al Testaccio. La disgrazia del dentro e il fuori della mostra non è solo cosa entra e cosa esce, ma quanto si riesce a far venire fuori, a far emergere dagli antri dell’“io” l’essenza dell’essere. Una crisi d’identità che trova soddisfazione solo dilaniando la carne, mescolando narcisismo, edonismo e noia, per renderli custodi e schiavi del cattivo rapporto con il corpo e con gli altri. Sfrenata ingordigia per il lato oscuro.
L’edonismo non è quello reaganiano e tanto meno quello della scuola cirenaica di Aristippo, ma il piacere del dolore nel riceverlo e nel farlo, ma soprattutto nel mostrarlo.
Una vasta documentazione attraverso i differenti media utilizzati da oltre centoventi artisti, ma non sono presenti tutti quelli che hanno dimostrato dimestichezza con l’argomento del corpo, per sintetizzare quarant’anni di storia dell’arte, esplorando la dimensione interna ed esterna del corpo e il modo in cui gli esseri umani interagiscono tra loro e con la materia.
L’opera primigenia è la “Merda d’artista” di Piero Manzoni - quello che entra e quello che esce -, i video e le altre opere ampliano sicuramente il concetto, mettendo a nudo il cattivo rapporto che molti hanno o immaginano di avere con il corpo, proprio o di altri ha poca importanza, con la materia che non vuol espandersi, facendo sfociare l’arte nella fisica, mostrando un’interiorità che non trova un’adeguata valenza nell’epidermide.
Il vedere tanta carne che sceglie di mostrarsi dolorante, come in un girone dantesco, e riscuotere una attenzione eccezionale per un evento d’arte contemporanea, richiede un momento di riflessione sulle fantasie collettive. Queste umane debolezze vengono mediate dall’utilizzo del video, dandogli una parvenza di realtà alle nostre paure e suscitano un voyeurismo incontrollato verso una merce artistica.
Nessuna delle sedi di Macro è stata, fino ad ora, così frequentata, ad eccezione delle serate inaugurali.
È difficile che tale attenzione potrà essere dedicata anche alle tragiche immagini del Darfur, come ad uno dei mille drammi di questo mondo, inserite in una fiction e sollecitare momenti di riflessione.
Immagini, informazione, tanta informazione che non si trasforma in conoscenza, ma rimane uno dei tanti fatti di cronaca. In questo momento in alcune zone del mondo imperversa la siccità, in altre infuria la stagione delle piogge, mentre da Macro dilaga l’introspezione, la ricerca della nostra scontentezza.
Opere, realizzazioni utilizzate come metafore di un malessere percepito o vissuto dall’artista, rispecchiano un disagio più ampio che coinvolge il modo di relazionarsi con gli altri pianeti del cosmo umano, ma sempre egocentrico. Un vissuto nel proprio mondo, una costellazione personale, un esclusivo sistema solare che non dialogo con il quotidiano.
Un gran numero di video per coniugare l’arte con i tempi che viviamo, ma è solo un miraggio, in realtà ci si allontana, ma rende l’affermazione di Walter Benjamin sull’opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica un fatto, senza avere unicità dell’opera, ma solo dell’evento nel quale l’opera viene riprodotta. Tanti video uguali che vagano ripetutamente sugli schermi, con la stessa angoscia.
Non si trova alcun brandello di serenità, anche il flemmatico video di Gilbert & George è pervaso d’angoscia o di una minima sbavatura altruistica. Tutto è racchiuso in una bolla mentale, in un narcisistico stimolo di sbattere in faccia i dolori psicotici con l’attenuante della sperimentazione artistica.
Unica eccezione, in tanta frustrazione nella noia quotidiana, è il messaggio che Alfredo Jaar lascia alla scrittura, rafforzandola con la visualità della grafia, per ripetere, in nero su bianco, un nome tristemente noto “RWANDA”. Un intenso lavoro, nella sua semplicità, che supera le intimistiche morbosità, per il quotidianità rapporto di noi con gli altri. Rwanda rappresenta ciò che di peggio può concepire umanità fuori dalle fantasie, ma è anche, come spesso succede nelle tragedie, il momento di riscoprire l’altruismo.
Di altro segno, sia espressivo che filosofico, è il dolore espresso dalle due mostre ospitate al Museo di Roma in Trastevere. Nella prima nessun compiacimento nelle opere della statunitense Susan Crile, ma un coinvolgimento artistico per condannare il dolore inflitto per tortura ad Abu Ghraib. Nella seconda sono le centinaia d’immagini scattate da Paolo Pellegrin ad obbligare lo spettatore a confrontarsi con la brutalità della guerra, la violenza della natura e le loro terribili conseguenze sulle popolazioni: l’esodo, le epidemie, la fame, la disperazione, la povertà. Postosi come osservatore, Paolo Pellegrin propone un bianco e nero drammatico e sgranato per documentare le tragedie del mondo, pure se alcune immagini potrebbero rappresentare qualunque luogo o fatto, se non fosse per il titolo a collocare la fotografia nel giusto contesto.
In questo marasma chi potrebbe notare l’uscita di VM 18, ultimo libro di Isabella Santacroce?
Una moderna menade che sostituisce i veli solari da un look tardo dark, proponendo una bella scrittura di maniera, protesa allo scandalo, senza concedere nulla alla fantasia “avendo tutto per crearci, se vogliamo, i nostri incubi”, ambientando il suo racconto in un collegio decadente in cui tre ninfette quattordicenni si dilettano in orge e delitti bevendo sostanze allucinogene.
Secondo Nicoletta Tiliacos de Il Foglio: “La Santacroce non riesce più nemmeno ad essere perversa”, ma sicuramente riesce a far parlare del suo stato di esaltazione.

Gianleonardo Latini


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