BELLO PER SEMPRE
Spesso ci tocca riconoscere nell’indubbia bellezza di contemporanei eroi cinematografici l’assenza di fascino autentico o, peggio, la volgarità e la stupidità a far da correttivo alla loro avvenenza, quasi una tassa necessaria da pagare per il dono che la natura elargì loro. Ma non fu sempre così.
"Caro è agli dei chi muor giovane" dicevano gli antichi greci, gente che oltre a saper riconoscere il talento aveva una speciale predilezione per la bellezza, dono mai ritenuto casuale. Era per essi la Bellezza simile al Genio, distinzione di chi, segnato dalla Grazia, reca in sé testimonianza di un mistero. Perché la Bellezza è mistero, è l’enigma della perfezione, del fascino, del carisma, che inspiegabilmente si sprigiona da una presenza, un volto, una voce. Gérard Philipe (1922-1959) aveva il dono della bellezza, non prepotente, non volgare, ma delicata e appassionata, talvolta amara e ironica, come il ricordo dei suoi personaggi, incarnazioni ideali di un Romanticismo in ritardo ma non retorico né decorativo. Se mai qualcuno poté naturalmente rappresentare eroi romantici e trasognati questo fu Philipe; soltanto lui poté rivestire senza sembrar goffo o fasullo panni che avrebbero rischiato di soffocare nel ridicolo attori più consumati. Perché Gérard fu anche splendido interprete, attore raffinatissimo, ebbe aspetto e voce per incantare le folle prima dei teatri e poi delle sale cinematografiche. Il segno della Grazia apparve subito, dagli esordi, marchio misterioso e inconfondibile del la sua persona. Certo non fù attore sprovveduto, ma non bastano le qualità tecniche a spiegare il miracolo di una presenza scenica e poi di una fotogenia incomparabili. Qualche volta peccò forse per eccesso di levità, di trasognata ironia, mai per presunzione o per aride pretese cerebrali. Anche questo è il genio: i testi più "estremi" ed aspri, le tragedie sul filo dell’abisso (Caligola di Camus o El Cid di Corneille), come le farse più frivole e leggiadre (Fanfan le Tulipe o Grandi manovre) trovarono in Philipe l’interprete ideale. Fu il delicato e tragico Principe di Homburg, fu lo spietato arrampicatore del Rosso e nero, fu l’angelico Idiota di Dostoievskj. Rese possibili e di profonda autenticità fantasmi improponibili nella temperie dura e realistica degli anni ‘50, generazione fatalmente destinata al Neorealismo e alla sua estetica crudele e disincantata. Philipe, deliziosamente controtempo, volle e seppe vivere il sogno, la malinconica dolcezza. l’invenzione fantastica legata a vecchi fantasmi, alle vecchie favole di un Romanticismo che nell’immediato dopoguerra rischiava di schiacciare chiunque nel goffo e nel patetico. Ma tutto in lui fu naturale e perfetto, come la Bellezza che si portava addosso, dono appunto inesplicabile. E alla perfezione della sua esistenza scenica (per certi eroi non deve esistere, né ci interessa una realtà quotidiana) fu corona tragica la sua morte precoce, come nella finzione dei suoi eroi prediletti. Così, come nel suo Modigliani di Montparnasse, la Bellezza e il Genio non possono conoscere vecchiaia. La leggenda dell’eroe si completa nella sua morte prematura, e anche in questo la vita e l’interpretazione di Gérard Philipe trovarono il definitivo, tragico sigillo. Sarebbe stato infatti mai possibile concepire un Philipe attempato e logoro?
Luigi M. Bruno
da ORIZZONTI 1999 (Marzo-Aprile)
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