Mediterranea

ANCHE QUESTA E’ VITA!

Si dice “uscire di scena” come se fossimo tutti attori, e forse lo siamo tutti un po’. Nessuna replica, non ci sono applausi, allora perché continuare? Un uomo decide di smetterla; non è “qualcuno”, e non è nemmeno nessuno.
E’ un uomo come tanti. Fallito? Che parola retorica e volgare, ci sono re in trono che son falliti e saltimbanchi di strada che qualcosa hanno vinto.
Chiamiamolo Carlo, tanto per dargli un nome. No, Carlo non aveva fallito, non aveva fallito perché non ci aveva nemmeno provato a vincere. Aveva avuto pistola e moschetto come tutti, ma non li aveva usati mai; amava l’ozio e la vita tranquilla, detestava le risse e le gare. Ma era un uomo onesto e, onestamente, aveva deciso di restituire il dono fiammante e lucido che non aveva usato. Non gli sembrava giusto continuare a tenersi una cosa così bella tanto per infilare un giorno dietro l’altro. Chissà; forse la sua vita sarebbe toccata a un campione, un condottiero, magari a un assassino: comunque a qualcuno che sarebbe saltato fuori dalla sua trincea. Carlo scelse un piccolo albergo di periferia, niente lussi, grigio e anonimo come la sua faccia. Prese una stanza all’ultimo piano ed entrò in ascensore. Pensò: era tardi, non avrebbe fatto molto chiasso, discreto com’era, lo avrebbero trovato solo l’indomani, nel cortile interno. Schiacciò per l’ultimo, il quinto piano era sufficiente per rompersi il collo. Ricordati: cadere di testa, frantumarsi le gambe e finire in carrozzella era la cosa più stupida che potesse capitargli. Si concentrava; sù, un momento e via, che ci vuole? Ma l’ascensore al quinto piano non si fermò, continuò a salire, salire, salire.
Ma non c’erano altri piani. Che scherzo era? Inquietudine, angoscia, panico: ormai Carlo era come una bestia in gabbia. L’incubo continuò ancora per un po’, poi di botto l’ascensore si fermò. “Ding!”; fuori era buio. Dov’era?
Era già morto? Era ubriaco? Era impazzito?. L’infernale ascensore era salito troppo, troppo in alto, forse più sù dell’ultimo grattacielo, magari invece del quinto piano l’angelo custode gli forniva un volo spettacolare. Finire in bellezza! Mise un piede fuori, sporse la testa, uscì. Ma non era sulle nuvole, non c’era vento e non c’erano in basso le luci della città. Camminò strisciando al buio, un pavimento, pareti, poi lentamente intravide stretti finestroni e la luce fuori dei lampioni. Odore stringente di muffa, umidità, casse, tubi, sedie. Era in uno scantinato; si prendevano gioco di lui? La vertigine di salire e poi lo risbattevano più in basso della strada, con i topi e gli stracci? Carlo si strinse gli occhi per non vedere, le orecchie per non sentire, arrabbiato e disperato. Doveva strisciare laggiù, sotto i passi della gente? Ora odiava il suo corpo stupido e inutile: finiamola in fretta! Impiccarsi? Né corda né gancio, e il soffitto della cantina era bassissimo tanto che ci arrivava col piatto della mano. Poteva al massimo strozzarsi da solo o spaccarsi la testa al muro: no, no! Roba da spietati stoici, da eroici masochisti. Non aveva tanto coraggio in corpo e, Carlo pensò, dopo stanotte non l’avrebbe più avuto per restituire la sua vita usata e malandata. Così al buio della fetida cantina, solo,rannicchiato e chiuso come un bambino impaurito, non trovò di meglio che sfogarsi in un urlo, un urlo penoso e rauco, lui che non aveva mai alzato la voce discreto com’era, un urlo feroce e rabbioso. Ma adesso non c’era più la cantina, né il buio, né un ascensore per risalire. C’era solo il suo letto sfatto, la luce tenue dell’alba filtrare tra le stecche di legno, il tic—tac della pendola. Carlo si alzò e si diresse a occhi socchiusi in cucina, accese la radio, svitò la macchinetta del caffè e guardò fuori. Un altro giorno.
E va bene, si disse, un dono non si restituisce mai. Un caffè, una sigaretta accesa, più tardi due passi fuori. Anche questa è vita.”Buongiorno amici!” strillò qualcuno alla radio.

Luigi M. Bruno
(inedito, 2006)


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