“RIMPATRIATE”,
CHE PASSIONE!
Stavolta il film è dell’altro
ieri, appena del ‘94, ma è già dimenticato
(o “rimosso”? Come si dice); trascurato da critica
e pubblico, riciclato in televisione in seconda serata,
come per gli appelli umanitari di una patetica trasmissione
tivù potremmo dire: “chi l’ha visto?”.
Ma Tutti gli anni, una volta l’anno di Gianfrancesco
Lazotti merita di riparlarne.
Rivediamoci con rabbia, ma anche con rimpianto e tanta voglia
di graffiarci dentro. Rivediamoci almeno una volta l’anno.
La ricetta della rimpatriata ha sapori e ingredienti risaputi,
eppure ci intriga e ci coinvolge ogni volta. Non c’è
bisogno di rifarsi al citatissimo (e supervalutato) Grande
freddo di Kasdan; abbiamo dalle nostre parti una solida
tradizione di amare rimpatriate: dall’ultima, un po’
facile e buffonesca, di Carlo Verdone e i suoi Compagni
di scuola, alla sconsolata serata in compagnia di una vecchia
partita di calcio: Italia-Germania 4 a 3, all’esito
forse migliore della serie (l’impareggiabile Scola
di qualche anno fa’) di C’eravamo tanto amati.
Saltiamo un bel po’ di anni per ricordare infine La
rimpatriata di Damiano Damiani del ‘63, un film oggi
del tutto quasi dimenticato ma che insieme alle sbavature
eccessivamente patetiche aveva al suo attivo una robusta
pena esistenziale che derivava dagli Antonioni e Pasolini
di quegli anni, e un “notturno” e un’alba
milanesi (in bianco e nero) francamente indimenticabili.
La storia ci coinvolge ogni volta perché, vuoi o
non vuoi, è la nostra storia, con i nostri rimorsi
e le nostre paure, anche se non siamo gli attori, i professionisti,
i falliti di turno: abbiamo tutti ugualmente dentro i nostri
tradimenti da confrontare e la nostra voglia di condividere,
con chi ci volle bene, il deserto di oggi e la paura di
domani.
Nel film di Lazotti ci ritroviamo tutti, dal ruolo più
stoicamente suicida di chi con due “ictus”,
le corna e le cambiali in protesto, non rinuncia a fare
il buffone fino all’ultimo (vedi l’ottimo Jean
Rochefort), al mediocre di turno che ha fatto della sua
vita un disperato tentativo di non dispiacere a nessuno,
chiuso nell’egoismo della sua fragilità (un
bravissimo Paolo Ferrari), all’elegante e un po’
nevrotico Giorgio Albertazzi, alla sconsolata e passionale
Giovanna Ralli, alla spaesata e un po’ tonta “singola”
di Paola Pitagora (forse l’unica fuori ruolo), all’apprezzabile,
rinnovato Lando Buzzanca, all’atticciato e insicuro
notaio di Paolo Bonacelli, fino all’exploit finale
di un Vittorio Gassman (un po’ appiccicato con lo
sputo), fantasma evocato per tutta la sera che viene, sentenzia,
affascina e sparisce per un altro anno. O forse per sempre;
forse la cena per ritrovarsi una volta l’anno non
si farà più.
Nonostante il drappello di noti attori e attrici teatrali,
praticamente gli ultimi “bravi” del mestiere
rimasti sulla piazza dopo l’incredibile moria di altri
sfortunati compagni (vogliamo affettuosamente ricordare
almeno Salerno, Lionello, Sbragia?), nonostante fosse in
scena appunto una considerevole fetta del miglior professionismo
teatrale ricordo che in sala eravamo in tre, dico tre spettatori,
nonostante fosse sabato sera.
Gli altri cinema rigurgitavano di gente che si colluttava
per sganasciarsi ai “mostri” benigneschi, agli
inseguimenti rovinosi, agli stupri supersonici, ai muscoli
di Schwarznegger ecc.
Cosa dedurne benché Tutti gli anni, una volta l’anno
sia un film delizioso, amaro, divertente, ironico, giocato
dai bravissimi interpreti con funambolico istrionismo? Forse
è “colpa” dell’ambito decisamente
teatrale della storia: praticamente senza esterni, girato
nel tempo “reale” di una cena in trattoria,
tutto risolto con dialoghi e assoli da proscenio.
Anche se godibilissimo, molto più teatro che cinema
(peccato imperdonabile!).
L’altra considerazione è che forse certi film
che ci tagliuzzano addosso crisi e fallimenti, con crepuscolare
sentore di vite al declino, ripugnano a chi, ferocemente
disposto
a “divertirsi” a tutti i costi, magari trova
geniali peti, pernacchie e spari in bocca, pur di non rigirarsi
addosso la pur minima spina esistenziale.
Luigi M. Bruno
ORIZZONTI 1997 (Giugno-Agosto) |