Il
grande vecchio racconta …
La Libia, il deserto, le palme, i
cammelli, le tempeste di vento, le notti stellate, i bombardamenti,
ma soprattutto gli uomini, eroi senza saperlo, candidi,
gentili, veri che morirono così, per nulla. E l’amicizia,
la solidarietà, la generosità, l’altruismo,
l’eroismo, valori preziosi e rarissimi al giorno d’oggi.
Tutto questo racconta Mario Monicelli nel suo ultimo film
“Le rose del deserto”. Il titolo non a caso
è poetico: c’è emozione, c’è
sentimento, commozione anche in mezzo alla guerra e ci sono
le rose che il vento ricama sulla sabbia del deserto. Tratto
dal romanzo “Il deserto della Libia” di Mario
Tobino a cui il grande regista si è ispirato, il
film traduce in immagini l’assurdità, il ridicolo
e la truffa dell’ultima guerra e in particolare della
guerra coloniale. Nella fattispecie si racconta di un contingente
sanitario impegnato sul fronte libico, un gruppo di commilitoni
uniti nella sorte, nella risata e nel dramma, semplici e
leali, spontanei nel gioco della vita, della guerra e della
morte. La recitazione è corale anche se spiccano
le figure del maggiore (il bravissimo A. Haber), un animo
da poeta innamorato delle stelle, del frate domenicano,
il missionario Simeoni (M. Placido perfetto nel ruolo),
del tenente e medico Salvi (G. Pasotti, bravo anche lui).
Sorprendente anche il generale, una figura macchietta che
Monicelli si è divertito a tratteggiare seguendo
i canoni delle comiche del muto. I colori usati nella pellicola
sono piuttosto allucinati, ma dietro la sabbia sporca e
le palme rinsecchite volutamente scelte dal regista, brilla
un cielo carico di stelle lucenti; le notti nel deserto
sono così magiche che le persone che si muovono sotto
quella volta fanno pensare a un presepio vivente. Non a
caso le note musicali scelte per sottolineare questo momento,
pur nella realtà cruda della guerra sono quelle di
Bach “Jesus bleibet meine Freude”, le stesse
note che risentiremo alla fine su un cumulo di sabbia segnato
da una croce di legno quasi a far da ninna nanna a chi ha
sacrificato la propria vita in quella terra. Il regista
toscano dopo “La grande guerra” torna a regalarci
a 90 anni suonati un’altra importante pagina di commedia
all’italiana dove, pur in mezzo alle bombe, sono presenti
il sarcasmo, la schiettezza e l’umiltà che
da sempre gli appartengono e lo connotano. I toni drammatici
sono smorzati, ammorbiditi dalla farsa, dalla battuta, dalle
risate anche se un po’ malinconiche; il linguaggio
è quello di sempre, dei suoi film migliori. Il tema
della morte qui sembra essere più vicino che altrove,
quasi privato della sua tragicità, un accadimento
naturale anche se causato dalla violenza, un’accettazione
dell’evento con serena partecipazione e non rassegnazione.
La morte vista con gli occhi della saggezza, di chi ha tanto
vissuto e tanto imparato, una morte che non fa paura ma
fa comunque riflettere sugli orrori e sugli errori della
storia.
Ester Carbone
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