L'INDECISIONE
VENEZIANA PER FAMAGOSTA
“Al tempo dei fatti narrati
in questa storia le palle dei cannoni non esplodevano, la
carne si conservava con il sale, le epidemie venivano da
astri creduti divini e le notizie erano merci di lusso,
dato che si muovevano solo con gli uomini che le portavano.
Solo quattrocento anni fa c’era un mondo diverso.
Il luogo è il Mediterraneo, un mare vecchio, curvo
sotto il peso del suo passato, disseminato di relitti, ricordi,
leggende, crudeltà. Un piccolo mare interno, se paragonato
agli oceani, un piccolo stagnante lago dove l’acqua
impiega 75 lunghi anni per cambiarsi; sempre meno centro
del mondo, della potenza, della ricchezza. Eppure, a leggere
le storie di chi quel mare navigò verso la fine del
‘500, tutte queste sensazioni svaniscono, ed esso
appare ancora un mare grandissimo, trafficato, terribile
nelle sue ire improvvise, volubile, misterioso”.
L'assedio di Famagosta era stato già
studiato e narrato, ma questo è un libro diverso.
Lo stampa un piccolo editore sardo che meriterebbe di più,
come di più meriterebbe l'autore. Il libro è
infatti storicamente preciso, ma scritto come un romanzo.
Le note storiche e bibliografiche infatti non appesantiscono
il testo, essendone separate, il che rende la lettura molto
agile. Ma passiamo ai fatti: come il gen. Gandin a Cefalonia
nel 1943, nel 1571 il comandante veneziano della piazza
di Famagosta, Marcantonio Bragadin, assediato dai Turchi,
si aspettava che la flotta della Serenissima venisse in
tempo a salvare la sua guarnigione. L'abbraccio ecumenico
non deve far dimenticare che Veneziani e Turchi ottomani
si sono confrontati per secoli per il controllo dei traffici
commerciali di cui entrambi avevano drammaticamente bisogno,
e che le due potenze si sono alla fine annientate a vicenda,
l'Impero Ottomano non essendo sopravvissuto oltre un secolo
dalla fine della Serenissima. Nella realtà le loro
economie erano complementari, ma la componente militare
turca mirava all'espansione continua, in un certo senso
era organica all'origine nomade della sua gente. Ma a fare
letteralmente a pezzi l’Impero Ottomano non saranno
i Veneziani, ma più tardi gli stati europei organizzati
con le risorse della rivoluzione industriale, dalle quali
i Turchi erano esclusi.
Tornando al libro, vengono dunque narrati i lunghi giorni
dell'assedio, sopportato da tutta quanta la popolazione
per mesi, che riesce a resistere a sei tentativi. Alla fine,
per fame ed esaurimento, si chiede una resa onorevole. Tutto
fa pensare che la situazione sarà in qualche modo
risolta, il comandante veneziano essendo ricevuto con gli
onori del grado nel campo ottomano. Ma il pascià
(che in italiano suona Lala Mustafà) cambia le carte
in tavola, per una questione di prigionieri. Sarà
un massacro seguito da un saccheggio. Per Bragadin la sorte
sarà ancora più tragica. Questo succedeva
a meno di un mese e mezzo dalla battaglia di Lepanto.
La domanda resta: perché tanta crudeltà gratuita,
come a Cefalonia i nazisti? L'autore scava nelle personalità
dei protagonisti, ricostruisce la dinamica dei processi
decisionali di entrambi gli Stati. Ne esce anche un quadro
patologico del Potere: non solo Lala Mustafà era
un instabile mentale, ma il nuovo Sultano era comunque obbligato
dalla tradizione a iniziare una nuova campagna militare,
spesso per dare sfogo a una popolazione seminomade. Lo splendore
di Istambul e dei suoi tesori non deve far dimenticare la
natura aggressiva e per molti versi primitiva del potere
ottomano, che pur ha saputo organizzare uno degli ultimi
grandi imperi euroasiatici. D'altro canto a Venezia, come
a Cartagine o ad Amsterdam, tutte città rette da
oligarchie mercantili, prima di iniziare una nuova guerra
se ne valutavano sempre i costi prima ancora che i benefici.
Vien da sé che i processi decisionali erano più
lenti. E a Famagosta l'indecisione è stata pagata
cara.
Marco Pasquali
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