TROPPO
BELLO PER ESSERE VERO (3)
La
pianista inglese Joyce Hatto è morta del tutto nel
2006. Nata nel 1928 a Londra da una famiglia musicofila,
negli anni Sessanta e Settanta si era affermata come profonda
e sensibile interprete del repertorio pianistico europeo.
Si era ritirata però dalle scene nel 1972 fa per
un tumore alle ovaie, e da quel giorno aveva inciso solo
in studio. Una lotta veramente epica contro il male: alla
sua morte la sua discografia aveva superato i cento cd,
119 per la precisione, e praticamente comprendeva tutto
quanto era stato composto per il pianoforte negli ultimi
tre secoli. Apprezzata dai musicofili, la sua scomparsa
è stata una perdita per l’arte pianistica.
Si era perfezionata con Alfred Cortot, aveva conosciuto
Benjamin Britten e Carl Orff, anche se negli anni 50 e 60
si era dedicata solo a Mozart, a Rachmaninoff e ad Addinsel.
Ma dagli anni ‘70 in poi si cambia musica: dalla villa
di campagna dove si ritira insieme al marito, il discografico
e ingegnere del suono William Barrington-Coupe, un pianoforte
già di Rachmaninoff sarà soggetto a superlavoro:
l’integrale di Liszt, di Bach, le sonate di Beethoven,
tutto Schumann, Schubert, Mendelssohn e Chopin, per passare
poi a Messiean e alle nove sonate di Prokofiev. Nel repertorio
son compresi anche alcuni dei brani più difficili
in assoluto anche per pianisti del calibro di Vladimir Ashkenazy
o Marta Argerich. Stilisticamente, non c’era però
uno standard: il modo con cui veniva suonato Prokofiev era
diverso da quello con cui si affrontavano Schubert e Beethoven,
con “salti” sorprendenti anche all’interno
della stessa composizione. Che dire? Un prodigio della Natura,
un Inno alla Vita.
A scoprire l’inganno
è stato un altro ingegnere del suono, Jeremy Distler,
ferrato critico del British Gramophone, il quale ha passato
al computer gli studi trascendentali di Liszt. L’archivio
della rivista è immenso, comprende i link con 4 milioni
di cd. Ora, i player software che suonano i cd nel computer
identificano la matricola della campionatura: in qualche
caso inserendo un cd della Hatto il computer tirava fuori
i nomi di altri artisti. A questo punto è stato possibile
scoprire il trucco: il marito discografico aveva mischiato
incisioni altrui, rielaborando il suono, mixando, rallentando,
riequalizzando, accelerando, elevando la tonalità.
E così per anni ha creato in laboratorio il repertorio
della moglie, sua compagna e complice. Ma come mai per anni
i critici e i fans hanno esaltato la Hatto, che non avevano
mai sentito dal vivo? Facile: evitare la folla è
tipico di molti musicisti, nei quali la continua ricerca
della perfezione, la tensione nervosa, lo stress dovuto
alla continua attività concertistica e l’ipersensibilità
possono portare a forme di squilibrio nervoso. Arturo Benedetti
Michelangeli, René Duchable, Hélène
Grimaud ma anche Telonius Monk sono arrivati a forme di
semiascetismo. Ma il pensiero corre a Glenn Gould, il primo
che si sia ritirato dalle scene per incidere esclusivamente
in studio, lavorando come un maniaco sul suono, re-incidendo
i passaggi imperfetti e creando uno stile opposto alla musica
dal vivo, bella ma “sporca”. A loro volta, i
maniaci del suono hanno trovato in lui l’idolo perfetto,
il feticcio da adorare. Le sue Variazioni Goldberg (di Bach)
sono comunque una pietra miliare nella storia del pianismo,
ma è la sua vita ad aver stimolato l’immaginario:
basta leggere i suoi libri (L’ala del turbine intelligente,
No, non sono un eccentrico, da noi pubblicati nel 1993 e
1989) e vedere i Trentadue piccoli film su Glenn Gould di
François Girard, sceneggiatura di John McKellar (1995).
Quindi l’idea di ritirarsi nella torre d’avorio
per dedicarsi unicamente alla musica era da tempo un concetto
acquisito. Ma Joyce Hatto e il marito hanno esagerato.
Infine, due parole sul direttore
d’orchestra, René Köhler. Ebreo sfuggito
ai forni, ebbe vita difficile in Unione Sovietica e diresse
in esclusiva per la Hatto le partiture per pianoforte ed
orchestra, con l’aiuto della National Philarmonic-Simphony
Orchestra, una formazione occasionale composta da strumentisti
polacchi emigrati. Né Köhler né i suoi
orchestrali hanno mai rilasciato interviste o lavorato per
altri concertisti. Un esempio di dedizione totale? Peccato
che René Köhler non sia mai esistito e –
si suppone – neanche i suoi fidi strumentisti polacchi.
Marco Pasquali
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