GLI SGUARDI DELLA FOTOGRAFIA
Per tutto il mese di maggio, Roma è
la capitale della Fotografia. Da una parte all’altra
della città, attraverso le mostre dei più
importanti fotografi del mondo, si snoda il tema del Novecento
e della necessità di una memoria collettiva.
A Palazzo Braschi, Giuseppe Cavalli, con “Fotografie
dal 1936 al 1961”. Più che un fotografo, si
potrebbe definire un pittore. Le fotografie di Cavalli sono
espressioni compiute dei suoi sentimenti, e non fedeli riproduzioni
della realtà.
Cavalli costruisce con cura ed attenzione i suoi “quadri”,
riprendendo le immagini nell’attimo giusto e scegliendo
l’inquadratura più significativa.
Immagini sobrie, equilibri armoniosi, giochi di luci e di
ombre in spazi senza limiti.
Spazi che si aprono verso l’alto, verso il cielo,
invitando l’osservatore a liberare l’immaginazione.
Scatti in grado di cogliere l’anima delle cose, regalandoci
atmosfere uniche, sospese fuori dal tempo. Perché
per Cavalli la fotografia non ha una funzione documentaria,
ma l’autonomia espressiva dell’opera d’arte.
Suggestioni del mondo della pittura, dalla metafisica al
surrealismo, all’astrattismo, si combinano davanti
al suo obiettivo, capace di trasformare la realtà
in fantasia.
E Cavalli, filosofo del piacere della visione del bello
e dell’arte, sperimenta una precisa scelta tecnica,
che è quella dei “toni alti”, e cioè
quelli più chiari, tendenti al bianco. Ed è
nella luce accecante dei suoi paesaggi, delle marine, ma
anche delle nature morte e dei ritratti, che esprime la
gioia del vedere.
Un sentimento di inquietudine pervade invece
l’opera del fotografo francese Arnaud Lesage, alla
Galleria Nazionale d’Arte Moderna, con “Mutations
itinérantes”.
In crisi d’ispirazione, l’artista s’interroga
su che cosa fotografare. L’unica risposta possibile
sarà il fotografare sempre, all’infinito, la
stessa immagine, incontrata girovagando per il mondo. Una
immagine grafica molto semplice, rintracciabile ovunque:
una forma verticale posta al centro della scena, una metafora
mentale del corpo umano nella sua assenza o scomparsa.
Dal 1996 ad oggi 4000 scatti, in una ricerca dalle innumerevoli
ed impercettibili varianti, dove il linguaggio del segno
diventa più forte di quello del colore.
Decisamente più rassicurante, per l’osservatore,
il lavoro fotografico di Garibaldi Schwarze, alla Casa di
Goethe in via del Corso. Anche se il titolo, “Così
luminoso il mondo e così dissennato. Ingeborg Bachmann
e Roma”, sembra il candido preludio a chissà
quale critica sociale.
E’ invece, unicamente, un omaggio alla grande scrittrice
austriaca del ‘900, che a giugno avrebbe compiuto
80 anni. Delle istantanee in bianco e nero ne raccontano
la vita romana, tra il 1954 e il 1973, le sue amicizie con
gli scrittori del suo tempo, ed il festoso incontro con
Giuseppe Ungaretti, di cui tradusse le poesie. Ma anche
la scrittrice nella sua quotidianità romana: la Bachmann
che fa la spesa, cucina, legge i giornali, fuma, sorride
divertita all’obiettivo.
Una mostra per sottolineare che la fotografia non è
il fine, ma il mezzo per avvicinarsi alla vita.
In un mondo ridondante di immagini, indifferente
e passivo, gli sguardi provocatori e stimolanti della fotografia
appaiono necessari. Addirittura vitali.
Simona Rasulo |