Geremia (Giacomo Rizzo)
è brutto e tirchio, ma quel che è peggio
è uno strozzino che tiene in pugno una cittadina
dell’Agro Pontino. La natura non è stata
generosa con lui e nemmeno il destino. Abbandonato
dal padre, vive con la madre malata in una casa fatiscente
e buia: la mancanza di luce rappresenta il lato oscuro
di Geremia. La bruttezza esteriore in questo caso
coincide con la spregevolezza interiore, rendendo
il personaggio più sgradevole. Ma a guardar
bene Geremia non è così odioso come
sembra, in lui c’è un po’ di Shylock,
il shakespeariano mercante di Venezia. Come Shylock
è sostanzialmente solo e come lui cova un rancore
profondo verso il prossimo. Ma a differenza dell’usuraio
di Shakespeare Geremia, prestando soldi a strozzo,
mostra premura e sollecitudine a quanti si affidano
a lui, proprio come un vero amico di famiglia. “Il
mio ultimo pensiero sarà per voi” ama
ripetere ai malcapitati di turno, e in fondo Geremia
crede a quel che dice. È sì un usuraio
che pensa al proprio interesse, ma l’interesse
non è tutto per lui. C’è una disperazione
di fondo in questo personaggio, una fame d’amore,
un disperato desiderio di “paradiso” giovane
e bello, c’è insomma un po’ di
cuore nel suo cinismo che a prima vista sembra assoluto.
La bellezza e la giovinezza di una perversa sposina
della provincia (Laura Chiatti) e il tradimento di
un amico, che lo trufferà di un milione di
euro, porteranno Geremia alla rovina. Ma domani è
un altro giorno e lui ricomincerà da zero.
Sarà lui a migliorarsi o saranno gli altri
a corrompersi? Paolo Sorrentino è un regista
di talento; il suo stile onirico è pieno di
simboli. Come nel precedente “Le conseguenze
dell’amore” anche in questo film emerge
il confronto tra Brutto e Bello e si affronta il tema
di possibili redenzioni. Il tutto intessuto in una
sceneggiatura impeccabile, una scenografia perfetta
ed essenziale e una colonna sonora che non lascia
indifferenti. “L’amico di famiglia”
è in qualche modo un ottimo film, sorprendente
nel senso che non c’è niente di scontato.
La prova d’attore di Giacomo Rizzo è
magistrale. La scuola di teatro è tutta lì,
nella mimica del volto, nella gestualità, nel
movimento del corpo, nella parola. Rizzo dà
vita e carattere a un personaggio dal profilo vagamente
felliniano: sgradevole ma non mostruoso, in bilico
tra farsa e cruda realtà. Geremia è
cinico e cattivo, ma nella sua misera vita c’è
un soffio di poesia interiore che in qualche modo
lo assolve. Certamente è un personaggio estremo
che ci porta ad esplorare il nostro io nascosto. Sorrentino
è un attento osservatore delle persone e delle
cose e in questa commedia nera la sua visione del
mondo è feroce e ironica, un po’ come
la vita. Alla fine ci chiediamo se non siamo tutti,
in fondo, un po’ Geremia e, in alcuni casi,
anche peggiori. Insomma la cattiveria è un
sentimento umano; vorremmo scrollarcela di dosso ma
rimane lì, manifesta o latente. Geremia è
il nostro lato oscuro. Lo stesso Sorrentino ce lo
conferma quando sostiene: “ In realtà
è molto più facile diventare come il
mio usuraio che non come Madre Teresa”. E conclude
lapidario: “In questo mondo siamo tutti strozzini”.
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