Com’ è
messa male “casa nostra” se è
popolata da personaggi come quelli descritti da Francesca
Comencini nel suo ultimo film. Può darsi pure
che il nostro paese sia lo specchio dei tempi corrotti,
dello sfacelo morale, del malcostume, ma qualcosa
di buono ancora rimane, non tutto si è sgretolato.
Certo è che la realtà rappresentata
nel film è sconcertante, così come è
proposta non mi piace, forse perché mi auguro
che il panorama non sia così brutto e squallido,
così sporco. Questo non vuol dire avere i prosciutti
sugli occhi o la cera nelle orecchie, è pur
vero che il momento storico non è tutto rose
e fiori; è evidente che il tessuto sociale
del nostro paese si è scucito in più
punti. Buchi neri della vergogna ci sono e come e
F. Comencini li mette in luce, si fa per dire, uno
dietro l’altro: intrallazzi nel mondo della
finanza e comunque anche della politica, droga e prostituzione,
criminalità, tratta di schiave dall’Est
(che noia però sempre i soliti temi ultimamente),
sesso a pagamento e non, coppie allo sbando, modelle
mancate e bruciate, sfruttamento nel senso più
bieco del termine. C’è poco da stare
allegri. Ma in “a casa nostra” c’è
di più nel senso di più in negativo:
il vuoto assoluto dei valori (si salva a malapena
il capitano della guardia di finanza e forse un ex
carcerato), l’amoralità e l’ipocrisia
più totale, l’abisso delle anime, l’annullamento
dell’uomo in nome del dio denaro. Tutto nel
film della Comencini ruota intorno ai soldi, il valore
più grande in questo oscurantismo, in questo
medioevo delle coscienze. La regista ce li mostra,
li esibisce, ce li sbatte in faccia con i suoi primissimi
piani. Primi piani che diventano ossessivi, immanenti
e disturbanti con la macchina da presa che si sofferma
con morbosità quasi devastante, sui volti degli
attori (Zingaretti, Golino, Chiatti), sui particolari
dei loro corpi, li scruta, li analizza fino a violare
ogni minimo segreto anche dell’anima, che purtroppo
non c’è. I primissimi piani, bellissimi
e intensi, lasciamoli al grande maestro danese Dreyer.
La storia è fatta di piccole storie che si
intrecciano; ormai sembra essere una moda dilagante.
Crash e 21 grammi insegnano, ma Inarritu (Babel) è
un’altra cosa: siamo nelle alte sfere con lui.
Gli scopiazzamenti lasciano il tempo che trovano e
deludono purtroppo. Anche la sceneggiatura fa acqua.
Uniche chicche: il riferimento a Pietro Germi e a
“Quel maledetto imbroglio” con la struggente
canzone “Si nun me moro” la foto in
bianco e nero di una giovanissima Stefania Sandrelli
e qua e là un po’ di Verdi con le arie
tratte da Il Rigoletto e da La Traviata. Belle ma
non bastano, il film è quello che è.
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