DIECI
RAGAZZI IN UNA BARCA
C’era un reame in riva ad un lago rotondo,
azzurro, e profondissimo. In basso, nella parte più oscura,
dove non arrivava neppure un riflesso di luce, nasceva la sorgente
che lo alimentava, e un fiume portava la sua acqua lontano, verso
il mare. Nessuno degli abitanti del reame avrebbe mai osato attraversare
quel fiume perché lì in un bosco cupo e smisurato
copriva le pendici di una montagna altissima. Lassù in un
castello nascosto dalle nubi abitava una strega solitaria e misteriosa
che nessuno aveva mai visto, ma che tutti temevano. E avevano ragione
di tremare, perché una maledizione pesava su di loro da molte
generazioni. Ogni anno dieci giovani di diciotto anni scelti fra
i più belli, venivano messi in una barca, portati in mezzo
al lago, e lì erano abbandonati e non se ne sapeva più
nulla.
Nessuno poteva dire quando era cominciato questo rito, nè
perché. Si sapeva solo che bisognava farlo per evitare vendette
da parte della strega.
Se non fosse stato per questo incantesimo il reame sarebbe stato
un paese felice. La terra era fertile e piena di fiori e frutti,
il lago era pieno di pesci, e i prati pieni di animali che pascolavano.
Il re organizzava feste in tutte le occasioni, il popolo cantava
e beveva, e ogni anno c’era un gran ballo a corte dove erano
invitate tutte le ragazze fino alla più umile contadina,
e tutti erano così felici e così grati al re e alla
regina per la loro magnanimità che nessuno si domandava più
il perché di quei dieci ragazzi.
Solo i familiari per un anno mantenevano un lutto silenzioso.
Del resto nessuno desiderava parlare con loro, e davanti alle loro
porte coperte da un drappo nero la gente taceva e affrettava il
passo.
Le persone più felici del reame erano Paolo e Caterina. Erano
giovani, belli e si amavano. Appena compiuti i diciotti anni lei
sarebbe andata alla festa a corte, e poi si sarebbero sposati.
Anche lui doveva partecipare ad una festa appena compiuti i diciotto
anni, una lugubre festa a cui non sapeva di essere destinano.
Una mattina Caterina andò alla casa di Paolo e fuori della
porta vide una carrozza nera, tirata da quattro cavalli neri con
i finimenti d’argento. Bussò e le aprì la madre
che piangeva, e c’era un grande silenzio nella casa. In mezzo
alla stanza Paolo aveva indosso una tunica nera con i bordi d’argento
e intomo a lui c’erano quattro persone con dei cappucci sul
viso che gli mettevano in testa una corona di rose nere. Poi lo
portarono fuori e lo fecero salire sulla carrozza. Lentamente si
allontanarono per le vie deserte. Caterina usci, senza curarsi di
chi voleva trattenerla, e segui la carrozza.
Non c’era nessuno per le strade, nessuno alle finestre, non
una voce.
Quando arrivarono alla piazza vide che altre nove carrozze stavano
arrivando, ognuno con un ragazzo tremante col capo coronato di rose
nere.
Si fermarono tutti in riva al lago di fronte ad una barca d’argento
con le vele nere.
Gli incappucciati trassero degli strumenti e cominciarono a suonare
una canzone. Poi cominciarono una. danza lenta intorno ai dieci
ragazzi. Tutta la giornata passò con questi canti e queste
danze e quando il sole cominciò a calare dietro la montagna
gli incappucciati fecero salire i ragazzi sulla barca, con delle
lunghe pertiche la spinsero verso il largo, poi il vento della sera
gonfiò le vele e l’imbarcazione si allontanò.
Le vele si confusero con il nero della notte e la barca d’argento
con il riflesso della luna, poi non si distinse più nulla.
Caterina rimase molto tempo sola nella piazza buia, poi cominciò
a camminare lungo la riva, poi cominciò a correre. Corse
tutta la notte finché arrivò al fiume che scorreva
luccicando sotto la luna. Li si buttò in terra piangendo.
Senti un fruscìo e una mano umida le si posò sul capo.
Si rizzò a guardare.
Davanti a lei c’era una creatura che stillava acqua e somigliava
più ad una pianta che ad un essere umano. Sotto il fango
che la ricopriva la pelle era squamosa, gli occhi grandi e sporgenti,
i capelli lunghissimi, verdi e viscidi come alghe. Era piccola e
curva, con mille rughe da animale antichissimo, e dalla bocca sottile
che le tagliava in due il viso la voce gorgogliava e schiumava.
«Anch’io ero venuta qui come te» diceva «a
piangere il mio ragazzo perduto. Volevo attraversare il fiume e
uccidere la strega.
Ma non sono riuscita e sono rimasta qui fra le rane e i pesci miei
amici aspettando dì vederlo uscire dall’acqua. Ma lui
non è tornato e sono passati tanti anni, tanti anni...»
Sotto la luce della luna si vedevano centinaia di girini brulicare
fra i capelli e si sentivano le loro piccole voci.
«Ho imparato il loro linguaggio» continuava «e
ho saputo che c’è un modo per spezzare l’incantesimo.
Ma ormai sono vecchia e non posso più muovermi. Ma voglio
dirti tutto e se avrai coraggio potrai sciogliere l’incantesimo.»
Caterina giurò che avrebbe fatto qualunque cosa e senza più
paura sedette accanto alla vecchia e l’ascoltò.
«Tanti e tanti anni fa questo lago era deserto, abitato solo
dal popolo delle rane, dei pesci e delle alghe che mi hanno narrato
la storia del reame.
Un giorno di primavera arrivarono a questa riva un re e una regina
col loro bambino e poche decine di sudditi. Si fermarono e decisero
di fondare una città. E così fecero. Ma avevano appena
finito di costruire l’ultima casa quando il re, solo il mezzo
a un prato guardando la notte, vide un punto luminoso dall’alto
della montagna scendere velocissimo verso di lui.
Avvolta in una gran fiammata si vide accanto la strega, grande e
lucente come un demonio.
“Questo lago è mio” gli disse “Vattene.”
“Ti prego” supplicò il re “lasciami stare
qui.”
“E sia. Ma in cambio devi darmi il tuo bambino e tutti i maschi
primogeniti dei tuoi discendenti appena avranno compiuto i diciotto
anni.”
Il re si gettò ai suoi piedi, poi visto che la strega era
irremovibile propose: “Ti darò ogni anno i dieci giovani
più belli del reame.”
“Va bene. Fra diciotto anni voglio dieci ragazzi in una barca.
Oppure mi piglierò tuo figlio e tutti i primogeniti dei tuoi
discendenti.”
I suoi capelli si accesero di un gran fuoco e una nube rossa la
portò in alto in cima alla montagna. E il re dovette fare
come aveva promesso se non voleva perdere suo figlio. Nessuno seppe
mai il motivo di tutto questo. E così fu, per molte generazioni
fino ad oggi. Se vuoi salvare il popolo dei ragazzi del lago devi
passare un anno insieme a me. Io ti insegnerò il linguaggio
dei pesci e delle alghe.»
Caterina promise. Allora tutte le rane cantarono e i pesci danzarono
sul pelo dell’acqua per festeggiare la coraggiosa ragazza.
Dopo un anno la vecchia morì, ma Caterina aveva ormai imparata
il linguaggio delle alghe e dei pesci, e un giorno si tagliò
i capelli, si infagottò in un vestito da uomo e tornò
al paese. Era il giorno del sacrificio dei ragazzi e gli incappucciati
cercavano le loro vittime. Quando videro questo ragazzo sconosciuto,
povero e solo, bello come un angelo, non ebbero esitazioni. Lo afferrarono,
lo vestirono della tunica nera, posero una corona di rose nere sui
corti ricci biondi e lo portarono sulla carrozza fino alla piazza.
Li si ripeté lo stesso rito che Caterina aveva visto l’anno
precedente.
Al calare del sole Caterina e i suoi nove compagni vennero messi
dentro una barca e spinti verso il largo.
Lentamente la barca lucente si avvicinava al centro del lago.
A mezzanotte una gran luce illuminò la cima della montagna
e un rumore di tuono rimbalzò per le gole rocciose, scosse
le cime degli alberi, scivolò lungo i ciottoli della riva
e increspò le acque tranquille del lago fino a formare una
spirale vorticosa che trascinò la barca e la inghiottì.
Caterina e i compagni chiusero gli occhi.
Quando li riaprirono erano in fondo al lago.
Di fronte a loro, in un trono di rocce, alghe e muschi fosforescenti
che ondeggiavano e spandevano una luce verde, sedeva la strega,
circondata dal popolo silenzioso dei ragazzi del lago.
Aveva gli occhi lucenti come cristalli e i capelli lunghi e rossi
fluttuavano intorno al volto crudele formando un’aureola.
Ai suoi piedi sgorgava la sorgente con la sua piccola luce di madreperla
che sfiorava i volti di dieci ragazzi che sedevano immobili a custodirla.
Tra di loro Caterina riconobbe Paolo.
La strega ordinò che i nuovi arrivati custodissero la sorgente,
mentre gli altri sarebbero passati al vivaio dei pesci. E quelli
che stavano al vivaio sarebbero passati alle serre dove crescevano
le erbe magiche.
Quando ebbe finito di parlare una miriade di bollicine la avvolse
e la trasportò in alto finché scomparve nel buio.
I ragazzi della sorgente si mossero e con gesti lenti e ondeggianti
spiegarono ai nuovi compagni come dovevano fare per regolare il
flusso d’acqua. Fu allora che Paolo vide Caterina.
Un anno di vita prigioniero sott’acqua aveva quasi distrutto
i suoi sensi. Il buio, il silenzio, l’inerzia, la monotonia
lo stavano trasformando in un vegetale senza reazioni. Ma gli era
rimasto qualche ricordo che di giorno in giorno si andava annebbiando.
Il volto di Caterina fece emergere dal fondo della sua memoria le
immagine di sole e di gioia di quando erano insieme nella loro città
piena di fiori nell’aria tiepida. Caterina gli parlò
sottovoce per non farsi udire dagli altri.
Furono necessari molti lunghi giorni per togliere Paolo dal suo
torpore, e diventava sempre più difficile anche per lei rimanere
sveglia e lucida in quella oscurità senza tempo.
Ma un giorno riuscì ad avvicinarsi al vivaio dove lui lavorava
e finalmente poté parlare con i pesci.
«Anche noi eravamo come voi, tanto tempo fa» disse uno
dei pesci «ma sott’acqua si cambia, piano piano. La
strega ci tiene qui e ci nutre fino al giorno in cui afferra uno
di noi e lo uccide, e ogni parte del corpo viene utilizzata per
le sue magie che l’hanno resa padrona di questo luogo. Le
nostre uova vengono seminate nella serra e fanno nascere le piante
magiche: le piante fosforescenti che illuminano il suo trono, le
piante rosse che danno il colore ai suoi• capelli, le piante
trasparenti che danno lucentezza ai suoi occhi, i fiori del vento
che la fanno volare, i fiori dell’aria che emettono le bollicine
che la fanno sparire, i semi del tempo che la mantengono giovane.
E ancora le foglie del sonno per addormentare i suoi prigionieri
e le radici velenose per uccidere i nemici. Non mangiate più
le foglie del sonno altrimenti nulla potrà salvarvi. Andate
alla serra e parlate con il fiore della conoscenza.
Dategli questa pinna. Vi aiuterà. E si strappò una
pinna. Un po’ di sangue intorbidò l’acqua e in
quella nebbia rossa il pesce scomparve.
Cercarono la serra ma era impossibile trovarla. Dovettero aspettare
fin quando Paolo venne mandato li ad occuparsi delle piante.
Era magro perché non aveva più mangiato le foglie
del sonno, ma la sua mente era sveglia e il ricordo della luce doloroso.
Quando vide la pianta della conoscenza le mostrò la pinna
e la pianta gli fece dono dei suoi frutti e gli disse il segreto
della strega.
«Il suo potere è cominciato il giorno in cui ha imprigionato
la sorgente. E finirà il giorno in cui la sorgente sarà
liberata. Allora l’acqua del lago aumenterà e penetrerà
in una galleria sotterranea dove sono le fondamenta del suo castello.
Per controllare il flusso dell’acqua ha fatto schiavi gli
uomini. E quando gli uomini diventavano pesci ha avuto bisogno di
altri uomini che allevassero i pesci, e poi di altri uomini che
coltivassero le piante che nascevano dai pesci. E così si
è formato il suo grande impero. Dovete mangiare i semi dei
fiori dell’aria. Si gonfieranno e diventerete leggeri e andrete
in alto, su, fino alla superficie dove il lago diventa fiume.
È l’unica via dì uscita. Ma attenti c’è
una piovra che vi impedirà di passare. Gettatele le radici
della molle e non potrà più farvi nulla. Seguite il
corso del fiume e raggiungete il mare. Li finisce il potere della
strega.»
Paolo raccolse tanti frutti della conoscenza per darli ai compagni,
e tanti semi dei fiori dell’aria, e le radici della morte.
Tutti i ragazzi del lago si svegliarono dal loro sonno e, guidati
da Paolo e Caterina decisero di fuggire. Con le menti meravigliosamente
chiare e i corpi leggeri come nuvole furono trasportati in alto
in una gran vertigine, verso la luce del giorno che avevano dimenticato.
Arrivarono al fiume e li videro la piovra e le gettarono la radice,
ma successe quello che non avevano previsto.
La piovra morendo si fermò all’imbocco del fiume e
ostruì l’unica via di uscita.
Nel frattempo la strega dalla torre più alta del castello
aveva visto l’acqua aumentare e sommergere il reame. Appena
il reame sarebbe scomparso l’acqua avrebbe raggiunto le fondamenta
del suo castello. Si precipitò alla sorgente e la trovò
abbandonata. L’acqua prorompeva minacciosa e senza freni.
Andò alla serra e trovò le piante divelte. Andò
ai vivai e li trovò vuoti. Corse al fiume e trovò
la piovra morta che ostruiva l’uscita e impediva all’acqua
di uscire così il livello del lago saliva sempre più
rapido e irresistibile.
Il popolo dei ragazzi si avvicinò minaccioso. Non avevano
più paura di lei. Il suo sguardo lucente esprimeva terrore.
I capelli erano spenti sul volto livido. Fuggì verso il laboratorio
delle sue stregonerie. I ragazzi la inseguirono. Le ampolle e gli
alambicchi esplosero, mentre lei, privata di qualunque potere si
copriva il volto con le mani che diventavano secche e ruvide, e
i capelli cadevano, e il corpo si ripiegava. Quando alzò
il capo si vide una piccola faccia decrepita, con indosso tutti
i suoi secoli di crudeltà che l’avevano consunta l’istante
stesso in cui aveva perso i suoi poteri.
I ragazzi tornarono al fiume, spostarono la piovra, e l’acqua
poté defluire e portarli verso il mare.
Lì fondarono la loro città, senza rimpianto per il
reame scomparso che aveva sopravvissuto per secoli perché
i suoi re traditori ogni anno avevano messo dieci ragazzi in una
barca.
Gianna Gelmetti
da Il Tesoro Verde
Empoli (Firenze), Ibiskos Editrice, 1989
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