“Prima lezione - Passioni oscure
Un conto è dar la caccia a un manipolo di
fanatici sui monti dell’Afghanistan o per i meandri di Gaza
e Baghdad. Tutt’altra cosa è invece arginare, guarire
dal fanatismo. Per parte mia non ho alcuna specifica competenza
nel campo della caccia, ma serbo qualche pensiero sulla natura
del fanatismo e sui modi per ammansirlo, se non redimerlo. L’attacco
all’America dell’11 settembre non è classificabile
tout court come uno scontro fra povertà e ricchezza. Però
non sono qui per parlare di guerra e pace e pace e amore e amore
e rancore – di cui avremo modo di discutere, spero, in un’altra
occasione, e più a lungo. Quest’oggi sono qui per
parlarvi della mia attività. Operazione incestuosa da parte
di un autore, questo disquisire del proprio scrivere. Molti anni
fa pubblicai un libro per ragazzi, intitolato Soumchi: vi svelavo
qualcosa della mia infanzia, in tono assai intimo, in prima persona.
Allora un giornalista mi abbordò chiedendomi: "Signor
Oz, può dirci per favore con parole sue di che cosa tratta
questo libro?". Dunque, in sostanza, è la stessa questione
che si pone per me: spiegarvi con parole mie di che cosa tratta
la mia scrittura. Vi dirò per prima cosa ciò che
non intendo fare: non azzarderò alcuna analisi, non proverò
a sfidare gli esperti sul loro terreno, e nemmeno tenterò
di dimostrarvi quanto sono bravo come scrittore. Vi racconterò
invece alcune storie su come lo sono diventato, su come scrivo
e come cancello, vi esporrò alcune delle mie frustrazioni
e altrettanti momenti di gioia. So che è molto comune,
in particolare in Germania, nella tradizione tedesca, parlare
della sofferenza e del travaglio che la scrittura implica. Conosco
persino la parola Schmerz usata in questo contesto. Ma preferisco
dirvi qualcosa a proposito della gioia di scrivere. O di alcune
sue occasioni […]
Sono un inguaribile patito della digressione, pertanto
ne incontrerete molte in questo mio discorso. Ecco subito la prima.
A proposito di gioia: intorno ai dodici anni frequentavo una scuola
ebraica religiosa per ragazzi, molto puritana, vittoriana sino
allo spasimo – a parte il fatto che nessuno aveva idea di
chi fosse la regina Vittoria. Un giorno l’infermiera della
scuola, la donna più coraggiosa ch’io abbia mai conosciuto
in vita mia, convocò tutti i ragazzi, saremo stati trentacinque
fors’anche quaranta, in un’aula. Sprangò le
finestre, chiuse la porta e nel corso delle due ore che seguirono
ci svelò tutti i segreti della vita. Meccanismi e congegni
misteriosi compresi, e quel che entra e dove entra, senza trascurare
trombe e tube e tutto il resto. Ricordo che la ascoltavamo pallidi
e sbigottiti e scioccati, perché dopo aver descritto tutti
questi terribili meccanismi, ci parlò anche dei due famigerati
mostri, gli Al Qaeda e gli Hezbollah della vita sessuale: la gravidanza
indesiderata e le malattie veneree. Ci sentimmo quasi venir meno.
Ora rammento un piccolo me uscire dall’aula domandandomi:
"D’accordo, ho capito la dinamica. Ma chi mai, in possesso
delle proprie facoltà mentali, si getterebbe in un guaio
del genere?". Evidentemente, l’intrepida infermiera
che tutto aveva descritto, s’era scordata di dirci che secondo
alcuni la faccenda implica un certo qual godimento. Può
anche darsi che non lo sapesse. Ma venendo alla scrittura, spesso
quando sento gli scrittori parlare di sofferenza e travaglio e
tormento della loro opera, mi torna in mente l’intrepida
infermiera. Amici miei, io sono diventato scrittore per colpa
dell’indigenza, della solitudine e del gelato. Ero figlio
unico di una assai modesta famiglia della classe media, –
di fatto, una famiglia povera di Gerusalemme. Mio padre faceva
il bibliotecario e mia madre dava sporadiche lezioni private di
storia e letteratura. Abitavamo in un minuscolo appartamento che
pareva l’abitacolo di un sommergibile, zeppo di libri in
diverse lingue. Ma a parte i tomi, c’era ben poco. I miei
genitori si ritrovavano con i loro amici nei caffè. E mi
portavano con loro, dal momento che ero figlio unico e non c’era
nessuno con cui lasciarmi, a casa. Mi dicevano che dovevano conversare
con i loro amici e che io dovevo comportarmi bene e che se mi
fossi comportato bene, alla fine avrei avuto il gelato. Insomma,
il gelato nella Gerusalemme di quell’epoca era più
raro che la pace nel Medio Oriente di oggi. Era un sentito dire,
una leggenda: solo chi era molto fortunato lo conquistava. Io
andavo matto per il gelato, se non che i miei avevano l’abitudine
di trascinare quelle loro conversazioni con gli amici ininterrottamente
per sette giorni e sette notti. O almeno così sembrava
a me. Allora dovevo pur far qualcosa di me stesso, per non urlare
o dar fuori di matto: così me stavo lì seduto, come
un piccolo detective, a osservare il viavai nel locale –
gente che entrava, gente che usciva... e come uno Sherlock Holmes
in erba, ne studiavo gli abiti, le facce, i gesti, le scarpe,
rimiravo le borsette e ingannavo l’attesa inventando delle
piccole storie su questa gente, fantasticando sulla loro provenienza
o sui rapporti fra quelle due donne e quell’uomo seduti
al tavolino d’angolo, le due che fumavano e lui no, una
con l’aria davvero triste, lui che a stento apriva bocca,
e l’altra donna che parlava quasi sempre lei. Dovevo inventare
una trama. O quell’altro – un giovanotto alto, strano,
dall’aria timida, seduto accanto alla porta con un giornale
davanti, che peraltro non stava leggendo. Teneva lo sguardo fisso
sulla porta, stava aspettando. Un’ora, due, insomma, non
era possibile che stesse aspettando il mio gelato, evidentemente
si trattava di una persona. Allora mi figuravo chi e perché
stava aspettando. Dunque, imparai ad alleviare la mia solitudine
osservando la gente, immaginando, inventando, a tratti captando
brandelli di conversazione per poi ricomporli e, come un ufficiale
della Stasi, ricavare da trascurabili frammenti di informazioni
una storia intrigante. Ora, debbo ammettere che continuo a comportarmi
così quando mi capitano i cosiddetti "tempi morti",
in aeroporto, o quando mi trovo in sala d’attesa dal dentista,
o in coda da qualche parte – invece di sfogliare qualcosa
o grattarmi la testa, mi do al fantasticare. Certo, le mie fantasie
di oggi non sono sempre così innocenti come quelle di allora,
quando, bambino, sognavo il mio gelato. Ma ancora fantastico.
E credetemi, è un passatempo utile, non solo per un romanziere,
non solo per uno scrittore: per chiunque di noi. Accadono davvero
tante cose, a ogni angolo di strada, in ogni coda in attesa dell’autobus,
in qualunque sala d’aspetto di un ambulatorio, o in un caffè...
Tanta di quella umanità attraversa ogni giorno il nostro
campo visivo, mentre per gran parte del tempo noi restiamo indifferenti,
non ce ne accorgiamo neppure, vediamo ombre invece di persone
in carne e ossa. Perciò, con l’abitudine di osservare
gli estranei, e con un pizzico di fortuna, finirete presumibilmente
per scrivere dei racconti congetturando intorno a quello che la
gente si fa a vicenda, a come ci si appartiene a vicenda. Altrimenti,
sarà comunque un buon passatempo con tanto di gelato alla
fine, un gioco dove non ci sono perdenti.
[…]
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