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La grande bellezza (o tristezza?)

Il film di Sorrentino è forse piaciuto più agli stranieri che agli italiani e francamente non mi ha convinto del tutto: immagini stupende ma trama labile e apparentemente scollegata. Bravissimo e ironico il protagonista, morti viventi tutti gli altri. Evidente la rivisitazione de La dolce vita di Fellini, ma dopo più cinquant’anni Roma è ovviamente cambiata e sicuramente in peggio. E forse Fellini la conosceva meglio. Ma non è solo dei personaggi che voglio parlare, ma della fotografia, vera icona del film. Sono le immagini curate da Luca Bigazzi ad aver reso il film interessante, non solo gli esseri umani che popolano come fantasmi una Roma pur esteticamente affascinante quanto lontana dall’esperienza quotidiana della gente normale. Si è detto che i Romani non si sono offesi, ma potevano offendersi solo le mille persone che non hanno bisogno di lavorare, spesso neanche romane. Non si sono offesi certo i prìncipi di Santa Romana Chiesa, peraltro già visti e rivisti. Dovevano offendersi piuttosto le donne, qui nel film rappresentate solo come puttane, madri fallite, scrittrici nevrotiche, nane materne o viziate cocainomani. E non potevano offendersi i politici perché stranamente assenti da queste terrazze romane, anche se quella casa si affaccia sul Colosseo proprio come quella regalata a Scajola a sua insaputa. Ma questi sono dettagli. Stupisce piuttosto nel film la mancanza di un’antitesi, di una massa antagonista; il film è in un certo senso privo di dramma: nessuno può contrastare l’azione perché nessuno la inizia, manca il movimento. Non solo: manca una controparte, un avversario con il quale impostare un contrasto dinamico. Tacito e Ammiano Marcellino vedevano comunque nei Germani forze nuove, le temevano ma intuivano e proiettavano in loro il futuro. Qui sarebbe bastata finanche una panoramica su piazza Vittorio per individuare il futuro di Roma, se non la sua salvezza.

Ma abbiamo parlato di immagini, quindi cerchiamo di analizzarle. Sicuramente ne esce un’immagine decadente, quale piace immaginare agli Americani, eternamente convinti del declino della vecchia Europa. Sono però immagini stupende, che suggerisco di collegare a quelle di un altro film, anch’esso ambientato a Roma: Il ventre dell’architetto (1987) del britannico Peter Greenaway, storico dell’arte prima ancora che regista. Ma mentre l’architetto vive il marmo dei monumenti romani in modo straniato, buttandosi infine dal Vittoriano (all’epoca chiuso al pubblico), Jep Gambardella a Roma è di casa anche se napoletano, ed è riuscito a diventare Arbiter elegantiae, anche se nel film vediamo più Seneca che Petronio. Ma per chi conosce bene Roma, nessuno dei luoghi ritratti è esoterico o inaccessibile in senso assoluto. Sono però luoghi straniati, deserti. Si riconoscono il Fontanone dell’Acqua Paola e il vicino San Pietro Montorio, palazzo Sacchetti, palazzo Doria Pamphilj a piazza Navona, l’emiciclo di Villa Giulia, l’ingresso del giardino del Priorato dell’Ordine di Malta all’Aventino, la statua di Marforio e alcune sale del Palazzo Nuovo dei Musei Capitolini, il giardino all’italiana del casino dell’Algardi a villa Pamphilj, più alcune chiese barocche del centro. Tutto sommato è poco rappresentata la romanità classica (a parte il Colosseo, persino ingombrante), mentre l’architettura razionalista degli anni Trenta fa da sfondo alla scelta dell’abito di Ramona per il funerale al quale andrà col Gambardella. L’arte contemporanea è invece presente – arredamenti d’interni a parte - con due performances, una gestita a villa Pamphilji dallo stereotipo dell’artista straniera e matta; l’altra ha per protagonista una bambina che sfida i tour de force che Otto Muhl faceva con le vernici negli anni Settanta. Ma nell’insieme, a occupare lo spazio fisico del film sono il Rinascimento e il Barocco. I monumenti e i palazzi sono ripresi quasi sempre all’alba o al crepuscolo o di notte, mai con la piena luce del giorno. Molti i dettagli. È il trionfo del chiaroscuro, il contrario della pornografica luce senz’ombre offerta dalla televisione. Può anche ricordare le stupende foto di Roma barocca di Paolo Portoghesi (ristampato nel 2011), ma il fine è diverso: nel film al movimento visivo del Barocco si sostituisce l’immanenza, anche se in comune c’è la ricerca della bellezza, che è una forma di trascendenza. Quella che Gambardella riconoscerà come tale dopo un (già visto in Cuore sacro di Ozpetek) confronto con la religione e la povertà vissute come scelta. La purezza della suora anziana fa il pendant con il ricordo del primo amore, e se siete giovani non avete idea di quanti uomini maturi ricordano in modo ossessivo il momento in cui il primo amore si è lentamente sbottonata la camicetta.

 

 

 

Marco Pasquali
marzo 2014

 

 

Titolo: La grande bellezza
Nazione: Italia
Genere: Drammatico
Anno: 2013
Cast: Toni Servillo, Sabrina Ferilli, Carlo Verdone, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Anna Della Rosa, Giovanna Vignola, Roberto Herlitzka, Massimo De Francovich, Giusi Merli, Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio, Isabella Ferrari, Franco Graziosi, Sonia Gessner, Luca Marinelli, Dario Cantarelli, Ivan Franek, Anita Kravos, Luciano Virgilio, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi, Lillo Petrolo
Regia: Paolo Sorrentino
Uscita: 21/05/2013
Produzione: Indigo Film con Medusa, in associazione con Banca Popolare di Vicenza per l'Italia, Babe Films, Pathé e France 2 Cinéma per la Francia

 

 

 

 

 

 

 

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