Un caso di scomparsa di Dror A. Mishani
La fatalitÀ della scrittura
È la mancanza di veri criminali alla Agatha Christie o dei serial killer a rendere avara la produzione giallistica israeliana. Questa è la teoria che l’ispettore Avraham Avraham, personaggio principale di Un caso di scomparsa dell’esordiente Dror A. Mishani, espone ad Hanna Sharabi recatasi al distretto di polizia della periferia di Tel Aviv per denunciare la scomparsa del figlio sedicenne Ofer.
Per l’ispettore non esistono misteriosi delitti in Israele e quando avvengono è il vicino o un parente. In quanto alla scomparsa del ragazzo, sostiene che possono essere innumerevoli e futili i motivi che lo hanno indotto a sparire per qualche ora, per poi assicurarla che probabilmente è già rientrato.
Una spiegazione che viene confutata da un membro dello Shin Bet con un’altra che ritiene i poliziotti israeliani impegnati in squallide indagini sulle quali nessuno perderebbe il tempo per scriverci un libro, mentre quelle importanti vengono affidate allo Shin Bet e come ogni servizio segreto evita di essere sotto i riflettori.
Ma il ragazzo non torna a casa, sembra svanito nel nulla, senza lasciare tracce e l’ispettore non trova alcun indizio nella pigra Holon, così lontana dalle luci di Tel Aviv.
Mishani non racconta la storia di un’identità perché il luogo dove si svolge la scomparsa non ha storia. È un luogo impersonale come tante altre periferie: non belle, ma neanche brutte, con palazzi anni ’60 e complessi residenziali in costruzione. In pochi anni la località di Holon si è popolata di locali e di vita notturna. Rari appaiono i riferimenti alla situazione politica israeliana e a quella internazionale, come la presenza di profughi africani e lavoratori stranieri, escludendo i brevi spazi di una quotidianità famigliare interrotta dall’arrivo della cartolina per il servizio militare.
Questo caso di scomparsa è l’occasione per Dror A. Mishani di replicare alla teoria del suo ispettore e lo trasforma in un viaggio nella psiche di Zeev Avni, insegnante di inglese del ragazzo scomparso, che arriva a confondere la realtà con l’immaginazione per alimentare la voluttà di scrivere, sollecitando le indagini.
La narrazione si sviluppa su due binari: quello dell’ispettore Avraham e quello di Zeev, dell’insegnante e vicino dell’adolescente scomparso, rispecchiando da una parte il fatalismo dell’ispettore e dall’altra la continua richiesta d’attenzione dell’insegnante.
Zeev, con le sue interferenze, offre alla polizia un diverso punto di vista per indagare e suscita il biasimo della moglie, quando lui, il novello scrittore, credeva di renderla orgogliosa con il suo progetto di scrittura.
La narrazione si dipana nel gioco delle parti e degli equivoci nel confessare un reato per scoprire le colpe di un delitto.
Avi appare come inebetito dalla vita e ancor più dal caso di scomparsa, con il gran senso di colpa nel non aver immediatamente avviato le indagini.
Un essere frastornato dagli eventi che lo rende ben lontano dallo stereotipo di eroe tutto d’un pezzo, sicuro di sé. Egli è invece pieno di incertezze che lo portano ad esprimere il contrario di quello che pensa, con il risultato di confondere gli interlocutori. L’ispettore viene sopraffatto dall’empatia per gli accadimenti altrui, mentre i poliziotti non sono i genitori dei cittadini. Come il suo superiore, Ilana Liss, gli suggerisce per scuoterlo da questo sentirsi inadeguato alle indagini.
Anche il viaggio intrapreso da Avi a Bruxelles, nell’ambito degli scambi tra organi di polizia, sembra solo una parentesi senza alcuna importanza per la narrazione e invece rivela quanto l’ispettore si senta estraneo al mondo in cui vive.
Un fatalismo che viene preso in prestito dall’autore per introdurre il lettore al romanzo utilizzando la frase Ma, porca miseria, perché tutto questo d’avere una spiegazione? tratta da Giacomo il fatalista e il suo padrone di Denis Diderot.
L’ispettore Avi è compassionevole come Maigret, ma a differenza del commissario francese è schiacciato da dubbi sulle scelte da fare, vive un continuo disagio del vivere che lo porta ad evitare di entrare in conflitto con il prossimo, anche se silenziosamente rimane contrariato.
La complessa fragilità che Dror Mishani dipinge su Avi Avraham è da indagare con maggior attenzione, come promette la dicitura “Segue” che sostituisce la più consueta “Fine” come l’ultimo vocabolo del romanzo.
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