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Ricordo di Gae Aulenti: la sicurezza della sperimentazione

"Nel progetto l’oggetto emergente è composto da elementi che sono costruiti in modo da mantenere evidenti i loro motivi originari, ma nel contempo possano essere disponibili a precisare i motivi del proprio futuro" (G. Aulenti).

L’intelligenza del lavoro di Gae Aulenti è indiscutibile. Guardando, o usando, uno dei suoi oggetti, attraversando uno dei suoi edifici, non ci interroghiamo sulla loro bellezza, o sulla loro coerenza rispetto alla poetica dell’autrice, ma veniamo afferrati da un’altra questione: ci chiediamo il perché essi siano così. Capiamo subito che la loro ragione consiste nel fatto che essi mettono in discussione qualcosa, che sono come uno non si aspetta che siano. Provocano così in noi  un lavoro mentale, un ragionamento.
Progetto, design, allestimento di mostre, grafica, scenografia, insegnamento universitario, ristrutturazione, urbanistica: si può dire che Gae Aulenti abbia toccato un po' tutti i tasti della professione architetto, ottenendo anche prestigiosi premi e riconoscimenti sia in Italia che all’estero, dimostrandosi personalità ben addentro alla cultura contemporanea. Ma se dovessi sintetizzare quale sia il tema alla base del suo lavoro, direi che è quello di misurarsi costantemente con i temi della crisi, senza esserne però troppo condizionata, anzi quasi sondandola con eleganza. Forse anche per questa ragione non si trova nella sua produzione nessun capolavoro, ma molte opere che fanno discutere, che agiscono nel loro presente, che fanno notizia, che suscitano polemiche, insomma che ci interessano.
Non è un caso, perché la Aulenti nasce all’architettura negli anni Cinquanta all’interno del circolo culturale milanese stretto intorno al magistero di Ernesto Nathan Rogers, un intellettuale che per primo in Italia, come professionista, come docente, come direttore della prestigiosa rivista «Casabella-Continuità», aveva messo in discussione la tradizione del Movimento Moderno, inoltrandosi per un cammino difficile dove impegno e complessità, tradizione e innovazione, utopia e concretezza, descrivevano confini labili e da ridefinire giorno per giorno, insieme al crescere delle esperienze internazionali, ma anche alla rilettura dei maestri dell’Ottocento e del primo Novecento. Autori quali Loos, Perret, van de Velde, Behrens, vale a dire coloro che erano stati i Maestri dei Maestri e il cui retaggio si voleva meglio comprendere, saldavano in tal modo una continuità che le avanguardie avevano volutamente interrotto. Gropius, Mies, Le Corbusier, Wright non erano a questo punto direttamente in discussione, ma si proponeva di approfondire la loro lezione, relazionandola con un solco che andava via via più lontano e che finiva poi per coincidere con la storia tutta.
Gae Aulenti, con Aldo Rossi e Guido Canella, si inseriscono in questo itinerario di complesso impegno che la generazione precedente - formata oltre che da Rogers, anche da Albini, Helg,  Bottoni, Gardella e, sia pure con diverse intenzioni, da  Giuseppe Samonà e da Bruno Zevi -, aveva cominciato a prefigurare. Ma se Aldo Rossi cercava i valori dell’architettura soprattutto nella teoria e Guido Canella iniziava un complicato metodo di ibridazione continua, si può sostenere che Gae Aulenti abbia chiarito un principio, o meglio un metodo, al quale è restata sempre fedele: in quel momento storico non c’era, a suo avviso, bisogno di invenzione, e nemmeno di personalizzazione, era invece più importante affrontare ogni volta il progetto come un campo di scontro tra i 'linguaggi dati', sia quelli della tradizione sia quelli della modernità. Con questi 'linguaggi dati', Gae Aulenti apre una sperimentazione talvolta spericolata, come se il tempo si sia in un certo senso fermato: è il tempo della contemporaneità. Ma entro quei 'linguaggi dati' della contemporaneità è come se fosse possibile attuare una continua sperimentazione basata su un  procedimento di spiazzamento.  Anzi, per chi credeva nella crisi del moderno, all’architettura pareva non restasse altro che questo. Nella crisi del moderno, che è crisi di identità e di valori, l’architettura avrebbe potuto progredire solo se riusciva a trovare relazioni spiazzanti sui 'linguaggi dati'. Una operazione, dunque, che usava le armi dell’avanguardia per procedimenti tradizionalmente definibili all’interno di un manierismo colto.
Per chiarire questo procedimento, ci si può riferire ad alcune tra le sue opere più famose: una mostra, una ristrutturazione, un oggetto.
La Mostra Il Tempo delle vacanze alla XII Triennale (1964), che vince il gran Premio Internazionale per l’allestimento, mette a confronto Picasso, il Palazzo della Triennale di Muzio e il comportamento umano nell'era del consumismo. Aulenti preleva l’icona ben nota dell’artista spagnolo, le due donne dalle massicce forme arcaiche che corrono sulla spiaggia con prorompente vitalità, le appiattisce, le  raddoppia e le ingigantisce, le moltiplica e le dispone su gradini digradanti verso rulli rotanti che simulano l’effetto delle onde del mare. L’allusione è all’armonico e irripetibile passato, al presente tumultuoso e avido di piaceri, al futuro tempo dell’equilibrio da ritrovare. Può essere utile ricordare che l’approdo in Italia della Pop Art americana, con il contributo predominante di Lichtenstein è alla Biennale veneziana del 1966, due anni dopo. Una formidabile anticipazione e una sintonia di intenti, dunque: prelievo, decontestualizzazione, spiazzamento di elementi sia artistici sia quotidiani, oggettualizzati così da descrivere comportamenti di massa del contemporaneo.
Il Museo d’Orsay, ristrutturazione dell’omonima stazione ferroviaria realizzata nel 1900 da Victor Laloux tiene insieme l’ingegneria dell’Ottocento e la rivoluzione della pittura dagli Impressionisti all’avanguardia. Aulenti ci spiega molto bene come la tradizione del moderno prenda le mosse dalla nuova arte del costruire, da quelle coperture voltate in ferro tralicciato che avevano inspirato Claude Monet, pur restando impigliate nelle accademiche sculture allegoriche, nella fastosa decorazione a lacunari e nelle dorature barocche. La mossa linguistica consiste, allora, nel cambiare il punto di osservazione, decontestualizzando le statue e il grande orologio segnatempo, elementi pochi anni prima definibili come kitsch, avvicinandone in primo la percezione, mentre i tesori delle avanguardie figurative sono come incastonate in grandi custodie alle quali si giunge con un percorso didatticamente analitico. Si sottintende così che ciò che è più vicino a noi si nasconde e si allontana, mentre resta in bella evidenza, come svuotato di senso però, il retaggio della grande costruzione, ora intrepretabile come la  illimitata volta a botte della mitica Biblioteca di Boullée.
Il tavolo con quattro ruote, del 1993 ci spiega itinerari analoghi. Come non pensare alla ruota di bicicletta che Marcel Duchamp inchioda sullo sgabello? Ma la scultura dadaista giocata sul ready made e sulla negazione della funzione, qui viene restituita alla sua potenzialità di rotazione, pur ingenerando uno spiazzante salto di scala rispetto alla ovvietà della percezione quotidiana. Si tratta di un’abile cambiamento di senso, perché ciò che è stato pensato per la strada entra in un interno, mentre il piano orizzontale di appoggio scompare nella trasparenza del vetro per mettere in mostra l’assurdità voluta degli appoggi.
Come si vede, Aulenti si muove con disinvoltura nei 'linguaggi dati', inserendo tra questi sia i retaggi ottocenteschi, sia i lacerti metodologici e formali delle avanguardie. Il risultato, però, è un ingresso nel postmodern, perché tutto ciò è sentito non come  ricerca del nuovo, ma come manipolazione di un repertorio già conosciuto, ove però innescare uno scompiglio. Proprio per questo le cose migliori della Aulenti vivono in luoghi già definiti, dei quali ingegnosamente sposta la connotazione e l’uso, sia essa una stazione dismessa, l’interno di un Palazzo per le esposizioni da allestire, un museo da ristrutturare, oppure un luogo ove introdurre un oggetto di design, che potrebbe stare benissimo in una galleria d’arte come in una casa borghese.
L’elenco sarebbe a questo punto fin troppo lungo, perché questo programma funziona solo a patto che ne sia ineccepibile la realizzazione, la scelta dei materiali, l’abilità costruttiva, e in questo campo la Aulenti  è completamente padrona del fatto suo. Non sfugge, infatti, che il suo punto di partenza progettuale sia una evidente meditazione sulla precisione e la chiarezza dell’opera di Louis Kahn, che proprio «Casabella» aveva segnalato tra i primi in Italia. Ecco dunque la casa del collezionista Agnelli, dove riappare il repertorio Pop Art (1969); lo Showroom FIAT a Zurigo (1970); i magistrali allestimenti di Palazzo Grassi per le Mostre Futurismo e Futurismi (1986), i Fenici (1988); la ristrutturazione delle Scuderie papali al Quirinale, Roma (1999). E poi la nuova facciata della Sede delle Ferrovie Nord a Piazzale Cadorna a Milano, dove la sottile parete ritmata da esili pilastrini rosso fuoco si stacca dall’edificio per appartenere alla piazza, ove campeggiano le sculture colorate  Ago e filo e Nodo di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen (2000). Infine le stazioni metropolitane di Piazza Cavour e di Piazza Dante a Napoli, dove i non-luoghi del nomadismo metropolitano diventano lussuose piazze pubbliche arricchite da opere di artisti come Michelangelo Pistoletto (2002).
Certo, non sempre i risultati sono del tutto convincenti, vedi ad esempio i nuovi edifici della stazione Santa Maria Novella di Firenze (1990), il Padiglione Italiano all’Expo di Siviglia (1992), oppure l’Istituto italiano di cultura a Tokyo (2005), dove troppo esplicita è la ripresa di temi di Aldo Rossi e non calibrata l’intenzione al monumento, privata com’è di un’adeguata vena corrosiva.
Ma c’è anche un’altra Gae Aulenti che si scopre qua e là, dove scompare ogni intento programmatico per dispiegare invece un eloquio sicuro, semplice ma affascinante, quasi fosse un suo doppio che ella tiene represso dentro di sé, ma che ci sarebbe piaciuto vedere più spesso. Lo troviamo nella casa a Pisa (1973), una semplice disposizione di muri di mattoni paralleli e una copertura unitaria; lo spazio pienamente fruibile, illuminato dall’alto tra una trave e l’altra sostenti il piano inclinato del soffitto, è arredato con le poltrone di Le Corbusier, la sedia Zig Zag di Rietveldt e la lampada Ruspa della stessa Aulenti. Oppure la Scuola materna di Villar Perosa (2003), un semplicissimo claustrum che circonda un giardino entro il quale sono ancorati con fili d’acciaio due gruppi di pannelli solari a forma trapezia, da intendersi come benefiche ali della fantasia che proteggono il mondo dei bambini.

Non ho avuto l’opportunità di conoscere di persona Gae Aulenti, e me ne dispiace. L’ho però sentita parlare e ne ricordo la presenza asciutta, precisa, laconica e ricca di una carica che metteva un po' soggezione. Per renderla presente in modo più diretto posso dire di aver visto, ma non ricordo dove, una sua fotografia da ragazza seduta sotto il Partenone, forse sui passi, quando era studentessa, del viaggio di Le Corbusier in Oriente e della “Lezione d’Atene”. È spesso pubblicato un suo primo piano, un viso levigato ed acuto, serio ma con l’ironia negli occhi. C’è infine una sua bella immagine di spalle con la nipotina per mano, mentre s’inoltrano sicure, entrambe con i caschetti in testa ma a passo alternato, nel cantiere del Quay D’Orsay.

 


Tavolo con ruote per Fontana Arte


Parigi, Museo d'Orsay


Napoli, Piazza Dante, metropolitana


Milano, Piazzale Cadorna


Il tempo delle vacanze, XIII Triennale


Venezia, Mostra I Fenici, Palazzo Grassi


G. Aulenti Cantiere Quay D’Orsay

 

Alessandra Muntoni

gennaio 2013


 

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