UNA PRIMAVERA DI LIBERTÀ CONGELATA DALL'INVERNO
Molte le speranze che l’Occidente aveva affidato alla primavera araba, parafrasando un film di Luis Buñuel dei primi anni ’70, ora non vanno oltre ad una libertà che aleggia come un fantasma sull’Egitto, la Tunisia e la Libia, mentre per la Siria e lo Yemen è ormai una guerra civile. Il cielo sopra i paesi del Golfo veglia su di un silenzio assordante. In Marocco si è intrapresa la via delle riforme sotto tutela, promuovendo delle elezioni caratterizzate da un assenteismo, benefico solo per i gruppi islamici più o meno moderati. Grazie alla timidezza giordana si prospettano tempi lunghi perché la Giordania possa schiudersi a una democrazia parlamentare.
Nel Mondo Arabo in cerca di Libertà, come nel film di Buñuel, è un continuo apparire sulla scena di nuovi protagonisti, spiazzando gli “spettatori”, ma in realtà sono sempre gli stessi personaggi che difendono gli interessi dei singoli gruppi e non degli abitanti nel loro insieme.
In Egitto, il popolo di piazza Tahrir continua la protesta e si è diviso sul votare o boicottare, astenersi dall’esercitare un diritto anche se sotto la vigilanza militare, lasciando campo libero agli altri, a quelli meno disponibili ad aprirsi al Mondo.
Le popolazioni dell’Egitto, la Tunisia e la Libia che si sono “liberati” da governi autoritari, nati come una strana collusione tra laicismo e islamismo, si trovano a confrontarsi con uomini del vecchio establishment e i rigurgiti di un ortodossia islamica celata nel moderatismo, per trasformarsi in integralismo.
Un eccentrico gioco di scatole cinesi, per cercare la libertà e il significato che può avere nella cultura araba, pedine di un domino che si muovono in precario equilibrio, per seguire una strategia nota solo al caos, guidando armenti al rassicurante recinto della religione.
L’Occidente non attende la stabilità democratica per cominciare a fare affari, sperando che il benessere economico non mini la stabilità precaria del Medio Oriente.
Il petrolio libico, le spiagge tunisine, la vigilanza egiziana sulla sicurezza di Israele, potrebbe andare tutto perso per il continuo estremizzare la fede cieca per un credo religioso che confonde la convivenza con l’assoggettazione.
Nei primi mesi del 2011 l’Occidente si è trovato impreparato ed è rimasto esterrefatto dal ribollire dello scontento nel Mondo arabo. Ora lo scontento serpeggia in casa e i governi sono sbigottiti perché non comprendono il motivo di tanta agitazione rivolta verso l’universo finanziario.
Sulla Primavera araba si sono confrontate sulle pagine dei giornali anche due figure del Mondo arabo di estremo interesse e da due luoghi di osservazione differenti. Lo scrittore egiziano Ala al Aswani confida nei cambiamenti laici, mentre lo studioso Tariq Ramadan, nipote del fondatore in Egitto dell'associazione dei Fratelli musulmani e figlio del promotore di Hamas, ritiene indispensabile, per i paesi arabi che escono dalle dittature, reinventare il modello democratico occidentale, trovando ispirazione nei testi islamici, dando vita ad uno Stato con principi guida che regoli la vita economica, non solo religiosa, ma anche politica e sociale, consoni alla religione imperante.
La Primavera araba, nella persona dell’attivista yemenita Tawakul Karman, ha condiviso il Nobel per la Pace con la presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf e l’attivista sua connazionale Leymah Gbowee.
Mentre il Premio Sakharov è stato attribuito a cinque dei protagonisti dello scontento nel Mondo arabo, ma solo la blogger egiziana Asmaa Mahfouz ed il libico Ahmed el Senussi, storico oppositore del colonnello Gheddafi, hanno potuto essere presenti. I siriani Razan Zeitouneh, avvocatessa per i diritti umani ideatrice e autrice del blog Syrian Human Rights Information Link, e Ali Farzat, vignettista rifugiato in Kuwait dopo che il regime gli aveva fratturato le mani, hanno lasciato la sedia vuota, mentre alla memoria è stato attribuito al commerciante tunisino Mohamed Bouazizi che un anno fa si è immolato, per protesta, nel fuoco, dando il via alla rivoluzione.
Anche il magazine Time, nella sua consuetudine di dedicare la copertina di fine anno ad un personaggio, ha reso omaggio a tutti gli scontenti del Mondo, dalla Primavera araba agli ateniesi, dai moscoviti a ogni «the protester», con tanta voglia di cambiamento, che cercano la libertà dai governi autoritari e dalle democrazie “minori”, dall’influenza imperante della finanza nella politica, come dimostra il movimento di Occupy Wall Street, e da politici lontani dalla realtà quotidiana dei loro possibili elettori.
Il manifestante armato di smartphone e account su un social network, il citizen journalist oltre al «the protester»di Time, può essere considerata la persona dell’anno, ma anche chi, non potendo essere presente fisicamente, da casa sua, con computer e connessione a internet, raccogliendo notizie, informazioni, fotografie, video e rilanciandoli sulla Rete come Year in Hashtag, tra gli ideatori anche Claudia Vago (Tigella), contribuendo ad offrire tanti tasselli dell’evento.
In Egitto si sta mettendo in scena un grottesco gioco delle parti tra la Giunta militare che si è sostituita alla monolitica presenza di Mubarak e i Fratelli musulmani, per una continuità repressiva nei confronti dei numerosi spiriti liberali.
La Libia delle vendette ha nel suo futuro la Sharia, come principale fonte d’ispirazione per la Costituzione, come anche in Tunisia si allunga l’ombra di una lettura religiosa della legislazione, senza perdere il vizio di sottrarre la rappresentanza politica a chi non si dimostra simpatico ai vincitori e in Egitto, mentre i Fratelli musulmani gridano vittoria, i Copti continuano a vedere un in certo futuro per la loro comunità.
Ispirarsi ai dettami religiosi, allontanando la separazione tra la politica come garante di ogni cittadino e la devozione ortodossa è presente anche in alcune democrazie Occidentali più che in altre. I ministri dei diversi governi greci giurano in presenza delle autorità ecclesiastiche. Un Dio di Abramo che ha influenzato la lettura legislativa e il comportamento sociale, esasperando alcune manifestazioni religiose, ma non necessariamente di fede, anche senza essere praticanti, ma solo per sentirsi parte di una comunità.
L’azione repressiva messa in atto in Siria dal regime di Bashar Al-Assad, documentata dai video presenti sul web di Syrian Revolution, come anche dal libro Clandestina a Damasco. Cronache da un Paese sull’orlo della guerra civile (Castelvecchi) di Antonella Appiano, per arginare le manifestazioni contrarie al potere dispotico, non si attenua, continuando a mietere vittime indiscriminatamente tra la popolazione, coinvolgendo bambini e donne. Accuse al regime siriano di crimini contro l’umanità si sono accentuate con la vera e propria azione di guerra nei confronti della città di Homs, portando l’organizzazione Human rights watch a produrre il rapporto We live as in war. Un rapporto che ha sollecitato, inizialmente, l’Occidente, insieme all’Onu, a porre la questione delle atrocità perpetrate in Siria, ha alzato la voce, in prima fila la Francia e la Gran Bretagna, ma dopo i risultati elettorali ottenuti dagli schieramenti islamici in Tunisia, Egitto e Marocco, l’entusiasmo si è trasformato in timidezza, lasciando l’iniziativa alla Turchia e alla Lega araba nel decidere sanzioni e la loro applicazione che, dopo numerosi tentativi, è riuscita solo ad ottenere l’ingresso di una delegazione in Siria per osservare le continue violazioni dei Diritti umani e per calcolare le migliaia di vittime causate da una irrefrenabile voglia di potere da non condividere con altri.
L’Occidente, facendo tesoro dell’esperienza irachena e afgana, sembra che riflette sulle conseguenze determinate dal loro voler “aiutare” le popolazioni vittime di abusi da parte del potere, per cadere, come si suol dire, dalla padella alla brace, da un dispotismo laico, magari con la sharia nel suo ordinamento giuridico, ad uno stato che rasenta la teocrazia viscerale, senza alcun rispetto delle religioni che non sia l’Islam, come dimostrano i Paesi del golfo.
Una Primavera, quella araba, che comincia a fornire spunti di meditazione, anche attraverso la cinematografia, con gli appuntamenti che si sono susseguiti, da quest’estate ad oggi, sugli schermi del SalinaDocFestival, con le opere di Mourad Ben Cheikh, contribuendo anche al programma novembrino dell’Accademia di Francia a Roma, sulla breve incursione nel cinema documentario dell'altra sponda del Mediterraneo, per comprendere gli avvenimenti dell'Egitto e della Tunisia.
Anche nella XVII edizione di Medfilm Festival, che si è svolta a novembre a Roma, gli ospiti d'onore sono stati la Tunisia ed Egitto.
Un'edizione particolarmente sentita in considerazione degli eventi di portata storica che hanno cambiato radicalmente gli assetti socio politici del Nord Africa, ma soprattutto hanno cambiato l'immagine che il mondo intero ha di questi popoli, che, con sorprendente forza e identità, hanno saputo caratterizzare la protesta nel segno della ricerca di libertà e democrazia, soprattutto grazie alla spinta dei giovani che in questi paesi rappresentano la maggioranza della popolazione.
Un viatico di Democrazia, coniugato alla creatività artistica, che potrebbe trovarsi a rischio, nella voglia di certe ortodossie a regolarizzare la libertà di informazione e di espressione, sia attraverso la scrittura sul web o sulla carta, ma anche nell’ambito delle arti visive.
La Primavera si potrà tramutare in inverno ed è necessario vigilare sulle provocazioni che degenerano in violenza, come quella avvenuta il 30 giugno al CinemAfricArt, cinema d’essai di Tunisi, in occasione del documentario Ni Allah ni maitre (Né Dio né padrone), di Nadia el Fani, a favore della laicità dello stato, con il risultato di chiudere per motivi di ordine pubblico uno spazio di aggregazione culturale. Anche la messa in onda del film Persepolis, di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, dall’emittente tunisina Nessma Tv, ha scatenato i salafiti per la scena in cui la protagonista dialoga con Dio. Un film già 2007 era stato “sdoganato” in Tunisia.
Quale libertà attende gli arabi che si sono ribellati con successo contro i loro padri padroni? Nel loro futuro si celano i personaggi delle vecchie nomenclature o imminenze fustigatrici delle mode occidentali, aggrappandosi ai segni esteriori di una religione, per instaurare delle Democrazie conservatrici. Governi sfrutto di delicate miscelazioni tra chi godeva dei frutti del vecchio potere e i propugnatori di un Islam religioso, confondendo la conoscenza delle scritture con la capacità di comprenderle, senza mescolare, in voli pindarici, il salvaguardare l’identità con il rifiuto dei principi di eguaglianza. Difficile proporre tale insegnamento, in un Mondo globalizzato, per approfittare di un’ideologia o di un credo per vessare il popolo, senza conseguenze, a chi ha assaporato la liberà, anche se vengono bollati come dei controrivoluzionari o dei blasfemi, magari dei rivoltosi fomentati da poteri stranieri.
Cambiamenti che continuano a trovare impreparata l’Europa, ma presi in considerazione nel recente libro di Giancarlo E. Valori Il nuovo Mediterraneo (Excelsior 1881), presentato anche alla Farnesina, per capire se gli eventi che si sono succeduti sull’altra sponda del Mediterraneo possano essere una limitazione, confine, o l’occasione di rinascenza per l’Europa.
Il 2011 è terminato con liberazione di 76 eritrei, 6 dei quali bambini, segregati nelle prigioni egiziane, mentre a novembre è giunta da Arish (Governatorato del Sinai del Nord, Egitto) la notizia che 611 profughi prigionieri dei trafficanti nel Sinai del Nord sono stati liberati, dopo quasi un anno, con la speranza di ottenere lo stato di rifugiato in Israele.
Una liberazione dovuta all’azione di EveryOne e di New Generation Foundation for Human Rights di Arish, oltre all’ICER, Ong Gandhi, Agenzia Habeshia, che ha salvato centinaia di persone dal girone infernale del traffico di esseri umani e degli organi, dagli stupri e dai soprusi delle guardie di frontiera, ma soprattutto al documentario realizzato dalla CNN. |