Raffaele Paganini si racconta ai microfoni di roma cultura in un'intervista di Linda Fratoni
E’ appena iniziato lo spettacolo George Gershwin: Diario di viaggio di un americano a Parigi con il quale si è aperta la stagione al Teatro Quirino di Roma. Ne abbiamo approfittato per intervistare il grande Raffaele Paganini, un’étoile internazionale che, nonostante i suoi numerosi impegni, si è concesso ai microfoni di Roma Cultura con una gentilezza ed una disponibilità rare per un personaggio del suo calibro.
Raffaele, tu hai varcato con straordinario successo i confini nazionali portando nei teatri e nelle compagnie più importanti del mondo la tua passione per la danza e la tua eccezionale bravura. Le tue radici, però, sono a Roma. Che sentimenti provi verso questa città?
Sono del parere che le proprie origini e le proprie radici non debbano essere mai dimenticate, così come l’idioma. Sapere di essere italiano, e romano, è per me estremamente importante e questa mia romanità, anche nel parlare, non la lascio mai. Credo che tutti debbano essere fieri delle proprie origini e della propria città.
Roma è una grande città che io amo moltissimo perché c’è tutto. Ti regala emozioni ogni giorno. Basta fare una passeggiata ai Fori Imperiali, a San Pietro, ovunque… è una cosa veramente deliziosa.
E’ proprio nella capitale che hai fondato il tuo Atelier della Danza. Sei un’étoile internazionale e hai messo a disposizione di giovani talenti e di danzatori professionisti la tua lunga esperienza e la tua professionalità.
Cosa ti ha spinto a fondare questa scuola?
L’Atelier della Danza nasce per un desiderio di crescita culturale prevalentemente all’interno del mondo giovanile perché sono convinto che i giovani abbiano bisogno di stimoli, di energia e di coraggio e tutte queste cose dobbiamo dargliele noi che abbiamo avuto un trascorso epocale importante e la fortuna di nascere in un periodo storicamente straordinario per la danza. Un periodo di grandi étoile e di grandi star a livelli stratosferici come Nureyev, Baryšnikov, Maximova, Plisétskaia… nomi che solo a citarli vengono i brividi. Tutto ciò mi ha portato a dire: “io che ho ballato con queste persone e che ho avuto il privilegio di conoscerle ed essere loro amico, io che ho tutto questo bagaglio di esperienza devo metterlo a disposizione dei giovani” e l’Atelier della Danza nasce proprio dal desiderio di tramandare, culturalmente parlando, tutto ciò che io ho imparato da questi grandi.
Se sei d’accordo possiamo fin da ora promettere ai lettori di Roma Cultura che verremo presto a trovarti nella tua scuola per entrare nel tuo mondo e farci contagiare dalla tua passione per la danza.
Sarebbe bellissimo perché la scuola nasce proprio per la gente ed è la gente che deve approfittare di questa iniziativa. Non nasce né per me, che ormai non ho più vent’anni, né per Luigi Martelletta, il mio coreografo e il mio socio in questa avventura della scuola. Abbiamo fatto un investimento artistico e culturale per la gente e vogliamo darle il massimo e la serietà professionale, cosa estremamente importante. Chi ben comincia è alla metà dell’opera e noi vogliamo cominciare bene.
Parliamo ora del tuo spettacolo.
Un americano a Parigi è stato uno dei più famosi poemi sinfonici composti da George Gershwin, un celeberrimo film del 1951 diretto da Vincente Minnelli, uno splendido musical teatrale che ti ha visto protagonista nel 1995 ed ora un balletto dal titolo George Gershwin: Diario di viaggio di un americano a Parigi che sarà di scena al Teatro Quirino di Roma fino al 16 ottobre.
Cosa caratterizza maggiormente quest’ultima declinazione di una delle opere musicali più famose al mondo?
E’ sicuramente una delle più famose al mondo. Quando ascolti Gershwin e specialmente quando ascolti i brani che abbiamo inserito in “Un americano a Parigi” la passione ti entra nell’anima.
Conosco tantissimi artisti nel mondo, specialmente danzatori, e tutti quanti, me compreso, hanno nel loro repertorio o un piccolo assolo di qualche minuto o un passo a due sulle musiche di Gershwin ma nessuno ha mai pensato di fare uno spettacolo su di lui.
Quando ho fatto queste ricerche sono rimasto basito perché mi sembrava impossibile che nessuno avesse mai pensato di dedicare uno spettacolo a George Gershwin.
Quindi ho deciso insieme a Luigi Martelletta, coreografo e direttore della compagnia, di fare la storia di Gershwin, un uomo che ha vissuto moltissime esperienze a partire dal suo viaggio che lo ha condotto, sul finire degli anni Venti, dall’America all’Europa che, non dobbiamo dimenticare, in quegli anni viveva una stagione di straordinario fermento culturale. In Francia Gershwin incontra Ravel, il suo mito, che si rivolge a lui con la frase storica: “Tu non hai bisogno di me. Tu sei già come me”. Gershwin era già un grande nonostante fosse giovanissimo. Pur essendo vissuto pochi anni ha scritto tante cose meravigliose, tra le quali “Un Americano a Parigi” che Minnelli trascrisse nel ’51. La prima edizione che io feci nel ’95 insieme a Rossana Casale fu la storia di “Un Americano a Parigi” ed era praticamente il film fatto a musical. Invece, questa volta abbiamo fatto la dedica a George Gershwin ed è nato così uno spettacolo incentrato sulla sua vita artistica, piena di migliaia di spunti. Uno spettacolo che io trovo di un’estrema finezza e di una straordinaria purezza tecnica, raggiunte grazie ai giovanissimi ragazzi della mia “Compagnia Nazionale Raffaele Paganini” e della “Compagnia Almatanz” di Luigi Martelletta.
L’elaborazione drammaturgica per balletto è curata da Riccardo Reim, la scenografia è di Giuseppina Maurizi e la coreografia è di Luigi Martelletta, un amico col quale lavori da anni.
Come definiresti il vostro rapporto umano e lavorativo?
Siamo nati nello stesso quartiere, ci siamo rivisti a scuola di danza quando avevamo non più di 14 anni e da quell’epoca siamo amici. Siamo stati colleghi perché anche lui è diventato primo ballerino al Teatro dell’Opera di Roma, quindi una straordinaria carriera anche la sua. Io ho scelto di andare all’estero per intraprendere una carriera internazionale e Luigi è rimasto al Teatro dell’Opera. Quando tornavo a Roma ci rivedevamo ed era sempre più divertente perché fondamentalmente abbiamo la stessa mentalità: ci piace lavorare bene. Questa è la cosa che ci accomuna e che ci dà la forza per andare avanti.
Volgiamo per un attimo lo sguardo al tuo passato ed entriamo immaginariamente nel Teatro dell’Opera di Roma dove hai mosso i tuoi primi passi. Che ricordi ti tornano alla mente?
Ho iniziato da zero e sono partito con il teatro dell’Opera di Roma dove ho fatto la mia scuola, tra l’altro neanche molti anni perché sono entrato tardissimo. Ho iniziato danza all’età di 14 anni e ho finito a 18. Ho fatto quattro anni anziché nove-dieci come si fanno di solito.
Oggi che sono un signore di una certa età mi guardo indietro, vedo questo ragazzino superdotato e straordinariamente tagliato per la danza e penso che sia stato giusto che mio padre insistesse affinché io facessi danza.
Non mi sono neanche diplomato al Teatro dell’Opera di Roma perché sono stato assunto direttamente dal Teatro dell’Opera stesso prima come solista, poi come primo ballerino e di conseguenza étoile.
Tu che hai lavorato con il grande Rudolf Nureyev, hai qualche ricordo da condividere con noi?
Mi tornano alla mente bellissimi ricordi. Ricordo che noi eravamo abbastanza giovani e lui sarà stato un signore di quarant’anni circa. Aveva già la gestione mondiale della danza e conosceva già tutti i danzatori che erano sparsi per il mondo. Era ambasciatore della danza e la portava in tutti i continenti, i paesi e le città.
Ricordo sempre una cosa straordinaria: quando veniva in Italia voleva assolutamente che io fossi il suo secondo cast, cioè il suo sostituto, perché aveva grande stima nei miei confronti.
Abbiamo studiato e lavorato tanto insieme... E’ stato lui insieme alla storica Vittoria Ottolenghi, grande professionista della danza a livello culturale e critica di danza, a decidere che io lasciassi l’Italia in tenera età per andare a conquistare l’Inghilterra al London Festival Ballet dove poi sono rimasto per tanti anni e da lì è iniziata la mia carriera internazionale.
A cavallo tra gli anni ’80 e ’90 erano momenti d’oro: c’erano questi grandi personaggi che mettevano in moto un volano talmente grande da creare una fortissima curiosità nei confronti della danza. All’epoca facevamo i galà dove si prendeva il meglio dei balletti di repertorio – brani eccitantissimi – e la gente impazziva di fronte ai volteggi e alle grandi evoluzioni tecniche di noi danzatori. Fin quando questi grandi personaggi sono stati in vita artistica la gente aveva molto desiderio di seguire la danza. Anche a livello economico si investivano molti soldi sulla cultura e sulla danza e la danza era molto amata. E’ amata tutt’ora ma in questo momento di crisi stiamo avendo un po’ di problemi. Si dovrebbe riuscire a tornare indietro con la memoria e pensare che in tutte le crisi mondiali ci si è sempre ripresi attraverso la cultura. Con l’arte, lo spettacolo, le commedie musicali, i grandi balletti e più in generale con tutti i nostri beni culturali potremmo dare una mano al risollevamento di questo paese.
Ora vorrei ci parlassi di una tua esperienza piuttosto recente.
Nonostante le tue numerose apparizioni televisive - grazie alle quali hai portato la danza di qualità sul piccolo schermo - nessuno di noi avrebbe mai immaginato di vederti all’Isola dei Famosi. Sei riuscito a stupirci anche questa volta!
Che cosa ha lasciato in te un’esperienza così particolare in un ambiente così distante dal tuo?
Io per primo non avrei immaginato di potermi trovare in uno show come quello.
Un artista ha bisogno di pubblicità, senza la quale non riuscirebbe a vivere in un mondo dove la televisione e il cinema prevalgono su tutto, anche sulla cultura.
Negli anni ’90 sono stato un privilegiato perché ho fatto trasmissioni importanti come “Fantastico”, “Al Paradise” – una straordinaria trasmissione di Michele Guardì –, "Europa Europa"… programmi che andavano in onda il sabato sera, che avevano uno spessore molto forte. E’ così che un artista può mostrarsi al pubblico. Per fare un esempio, anche Gigi Proietti, che io amo, se non avesse fatto televisione e cinema probabilmente oggi sarebbe sempre lo stesso grande Proietti ma avrebbe sicuramente portato meno gente a teatro. Allora noi gliene rendiamo merito.
Per noi artisti la pubblicità è l’anima del nostro commercio. Ci dobbiamo far conoscere per portare più persone a teatro. Il problema di oggi è che in televisione non ci sono più i programmi di una volta. Non voglio dire che una volta era bello e che oggi è brutto. Oggi è diverso. Ci sono meno idee e forse si potrebbe tornare alle idee di ieri, ma non spetta a me dirlo.
Tornando alla tua domanda, mi è stata offerta la partecipazione all’Isola dei Famosi e mi sono reso conto che, nonostante io non ami particolarmente questo genere di spettacoli, tra tutti quelli che mi venivano proposti in quel momento, l’Isola era il più adatto a me perché mette in gioco il tuo fisico, la tua personalità e ti apre al pubblico come è giusto che sia. Siamo personaggi pubblici, perciò dobbiamo dedicarci al pubblico al mille per mille, ovviamente nella vita artistica e non nella vita privata.
Ora facciamo un salto dal mondo della danza a quello del cinema. Lo scorso anno il regista Darren Aronofsky nel suo film Il cigno nero ha raffigurato la danza classica come un mondo claustrofobico, ossessivo nel quale la dedizione e la disciplina distruggono il protagonista nel fisico e nella mente.
Raffaele ci puoi aiutare a dare un’immagine positiva dell’arte della danza dando soprattutto un suggerimento ai giovanissimi che iniziano questa avventura?
Non dobbiamo dimenticare che quella non è la realtà, quello è un film che è andato bene e che purtroppo non ho ancora avuto il piacere di vedere e che vedrò quanto prima. Un regista ha delle idee e le pone in essere. Il mondo della danza, però, non è un mondo duro dove esistono problemi a livello psicologico, come è dipinto in quel film.
La mia visione della danza è assolutamente bella, positiva, piena di emozioni. Entrare su un palcoscenico e potersi esibire davanti a delle persone che pagano addirittura il biglietto per venirti a vedere è una cosa straordinaria.
Quel regista ha voluto colpire i cuori e le menti del pubblico e ci è riuscito, quindi complimenti. Ma i registi non sono portatori di verità. I portatori di verità siamo noi, gli artisti veri. Fellini era un fruitore di verità artistica, di arte e di spettacolo ma ce ne sono pochi come lui che hanno rappresentato la vita reale e l’hanno portata al cinema.
Io sono nel mondo della danza a livello internazionale da quasi trentacinque anni ed è sempre stato così: bello, florido, pieno di cose nuove da scoprire, di ragazzi che si conoscono, si divertono, vivono insieme nelle scuole di danza, poi crescono e vivono insieme nei teatri e poi viaggiano... Credo che sia una cosa meravigliosa.
Quindi penso che quel regista abbia immaginato a suo modo questo mondo e l’abbia tradotto così. E’ come Picasso. Noi ci ricordiamo di lui per gli ultimi quadri che ha dipinto ma Picasso ha fatto precedentemente anche cose tra virgolette normali quindi non è la persona contorta che molti di noi immaginano. E’ un grande pittore che ad un certo punto ha visto le cose in quel modo perché in quel momento il suo stato d’animo era così e ha dipinto come il cuore gli dettava. Evidentemente il regista Aronofsky ha fatto allo stesso modo.
Ci tengo a dire che il mondo della danza è un mondo pulito, che io vedo azzurro e rosa ed è per questo che lo consiglio a tutti.
Purtroppo è arrivato il momento di salutarci però, se anche tu lo desideri, il nostro è solo un arrivederci a presto.
Sarà un arrivederci a presto, assolutamente.
Ti ringrazio per la disponibilità e in bocca al lupo per il tuo spettacolo George Gershwin: Diario di viaggio di un americano a Parigi al Teatro Quirino di Roma fino al 16 ottobre.
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